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Gino Zani, l’ingegnere che ha ridisegnato il Monte

da Redazione

La sua mano su un’infinità di opere del territorio: le case Angeli che si affacciano sul Pianello, la facciata della Chiesa San Francesco e il teatro Titano. Realizzò anche piazza Sant’Agata, via Donna Felicissima e l’Ara dei Volontari. Le parole di Francesco Balsimelli nella commemorazione.

 

Amico d’infanzia, Francesco Balsimelli, in occasione della commemorazione ufficiale del 13 giugno 1964, scrisse “In memoria di Gino Zani”. Vi proponiamo alcuni dei passaggi più suggestivi.

 

Gino andava a scuola ed era l’orgoglio della famiglia. Era stato ammesso al Ginnasio nel 1895-96 e mostrava già fin d’allora volontà e ingegno non comuni, spiccata attitudine alla matematica e al disegno, meritandosi di anno in anno esoneri dagli esami e premi, finché nel 1902-1903 ottenne con splendida votazione la Licenza Liceale. Poi si iscrisse all’Università di Bologna, e furono anni di stenti e di privazioni: il padre cercò di intensificare il lavoro, il fratello Angelo si diede a battere con più vigore il mazzuolo per essere d’aiuto allo “studente ” in tempi in cui le pubbliche previdenze non erano larghe di sussidi e di assegni. Ma Gino, a parte il modesto aiuto che potè sperare dal sacrificio dei suoi, si può dire che s’inerpicò da solo per l’aspra montagna della vita “scavandosi il fine ed il mezzo”. Andavo spesso in casa sua quando egli frequentava la facoltà d’ingegneria ed io facevo il mio ingresso al Ginnasio; e guardavo con soggezione quel giovane provando, io umile scolaretto, una specie di sgomento nel vederlo assorto su certi libroni o tracciare incomprensibili segni sulla carta. Fu alloggiato per un anno anche in casa nostra, perché lo studente aveva bisogno di una cameretta tutta per sé dove poter studiare senza disturbo. Avevamo un ripostiglio con una finestrella munita di rozza inferriata che dava in un angusto cortile di proprietà altrui, e che aveva l’aspetto di una cella claustrale, quando non addirittura di una cella carceraria, cui si accedeva scendendo una scaletta di legno dell’altezza di un metro. La chiamavamo “la stufa”, ed era infatti in corrispondenza di due sottostanti forni semidistrutti. Ebbene, il padre ne stuccò le pareti e il soffitto, ne aggiustò il piancito di rozzi mattoni sconnessi, l’imbiancò tutta e… parve una reggia. Ivi Gino aveva posto una branda, un lavamano, un tavolo, un modesto scaffale, e trascorreva il giorno studiando alla tenue luce della finestrella, la sera al lume vacillante della candela; e spesso, d’estate com’ebbe a ricordare Federico Bigi si recava col libro a sedere sul nudo scalino di pietra, sotto il fanale all’angolo della casa per giovarsi del chiarore che pioveva fialbo dal lampione a petrolio, mentre tutt’intorno guizzavano mille fiammelle di lucciole. Così studiava anche Gino. E già fin d’allora osservava con orrore il guasto delle cave che rodevano il ciglio del Monte, le mura che si sbriciolavano, i camminamenti in rovina, gli arconi fatti cantieri; e già fin d’allora forse maturava nella sua mente l’opera di restauro di quegli antichi monumenti, testimoni della nostra storia e della nostra forza pugnace. Al tramonto egli ritornava a casa quando cessava il fervor delle cave ed anche il muratore Oreste, lo scalpellino Angelo raccoglievano i ferri per avviarsi alla parca cena. Gino visse così, come vivevano allora tutti i figli della derelitta classe operaia; quando il contorno di oggi costituiva lo spartano companatico, quando d’inverno scarsa legna alimentava il focolare e non sempre, quando la candela fumigante spandeva la sua tremula luce sul desco, quando il vino era un lusso ed il pane non era sempre sufficiente a saziare la fame dell’adolescenza. Nel 1908 Gino Zani ottenne la laurea col massimo dei voti, e subito dopo, la nomina ad Assistente di Statica Grafica presso la stessa Università di Bologna. Ma la sua aspirazione era ben altra: Egli voleva esercitare la professione, dedicarsi al lavoro, trovare oneste fonti di più proficuo vantaggio; voleva potersi fare sostegno dei suoi genitori nella vecchiaia, allorché la Società non offriva al lavoratore inabilitato che la speranza di un ingrato ricovero. Non era facile allora ad un laureato, per quanto pieno di volontà e dotato di fervido ingegno, trovare occupazione in patria dove il lavoro mancava e la povertà dell’erario e dei privati non consentiva larghe possibilità di guadagno: bisognava distaccarsi dalla famiglia. Il terremoto calabro-siculo del 1908 che aveva distrutto Reggio e Messina, richiedeva per la ricostruzione maestranze e tecnici. Fu così che Zani ai primi di Gennaio del 1909 si recò in Calabria come Ingegnere volontario. Quivi, a fianco dello scienziato giapponese Omori, cominciò a studiare i fenomeni sismici ed ebbe l’idea della possibilità d’impiego nelle zone soggette a movimenti tellurici, del cemento armato nel cui studio aveva ottenuto una specializzazione a Bologna. (…)Per quanto riguarda i restauri della Seconda Torre, Zani era fin d’allora nettamente contrario al progetto dell’architetto Moraldi, il quale non voleva che si elevasse di troppo il muro di cinta per ragioni estetiche, mentre egli, sicuro ed acuto interprete dell’architettura medioevale, sosteneva doversi sacrificare il criterio estetico alle reali esigenze della difesa e, quando nel 1925 venne a visitare i lavori delle Mura Castellane, partecipando all’adunanza della commissione, esibì fotografie e disegni, fece un’ampia elaborata relazione sul ripristino delle Torri, delle Mura e delle Porte e ne conseguì che la direzione dei lavori venne affidata a lui. Ma già nella mente feconda di Zani andava maturandosi ed aprendosi tutto un largo orizzonte di restauri e di ricostruzioni tendenti a conservare al Paese il suo carattere medioevale. Così proponeva e progettava il restauro della casa dell’Arcipretura a fianco del nuovo Palazzo ripristinandone il primitivo carattere quattrocentesco. Proponeva di togliere l’intonaco all’antica “Domus Comunis ubi iura redduntur”, com’è chiamato in documenti della metà del ‘300 l’attuale Palazzetto delle Poste. Voleva mettere in vista le finestre a sesto acuto, curare il restauro e la conservazione delle finestre e porte delle vecchie case, scoprire le tracce delle più antiche costruzioni: loggette, ogive, mensole, sporti. Fin dal 1919 pensava all’abbattimento della rozza fabbrica soprastante il loggiato dell’antica chiesa di San Francesco per scoprire il rosone; propugnava i restauri della Casa Gozi con la bifora quattrocentesca, il restauro della casa Fattori, la loggetta Secentesca di Casa Braschi e quella cinquecentesca delle Piagge; la Bottega con la classica bancalina della casa di Antonio Orafo. Ed intanto, nelle brevi scorribande a San Marino, andava compulsando le carte del nostro Archivio, preparando il materiale per i suoi studi avvenire. La distanza dunque non affievolì l’amore per la Terra natale, anzi direi che l’accrebbe con senso di nostalgia e di passione.

Se grande fu la sua attività costruttrice nei 27 anni di permanenza in Calabria, non minore fu l’operosità creatrice che Zani svolse negli altrettanti anni di vita sammarinese. Ma non dobbiamo dimenticare che anche prima, pur impegnato com’era, aveva progettato nel 1923 per incarico del nostro Governo il maestoso Mausoleo dell’Ara dei Volontari, ed il nuovo Palazzo degli Uffici, il cui progetto, sottoposto nel 1935 all’approvazione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici d’Italia, ottenne il più lusinghiero successo. La monumentale costruzione dell’Ara, punto di partenza per la sistemazione della Piazzetta antistante il Collegio, e di tutta la zona compresa tra Via Giosuè Carducci e il Cantone Borghesi, fu felicemente realizzata e solennemente inaugurata nel 1927; l’altra, un colossale edificio di pietra, ispirato ai rozzi elementi dell’architettura locale, con una lieve impronta di fortilizio non fuori posto in un paese dove l’architettura militare fu l’unica a essere particolarmente curata, noi dobbiamo rammaricarci che per gli eventi dell’ultima guerra sia rimasto interrotto e altro non resti che una fila di archi e di pilastri ad attestare le possibilità creative dell’artefice che l’aveva disegnato secondo le buone regole dell’antica arte romana.

Quando un giorno, sulla scorta delle vecchie illustrazioni del Paese, qualcuno farà il raffronto con le nuove sistemazioni, col nuovo Piano Regolatore Interno ed Esterno, apparirà in tutta la sua meravigliosa grandezza l’opera di Zani. Gli archi, i monumenti, le piazzette, i loggiati, gli angoli più sordidi e bui risanati, i vari edifici sapientemente riparati, restaurati, costrutti con che ha voluto lasciarci l’esempio di come si possa innovare conservando, di come anche le costruzioni più vecchie e più consunte dall’edacità del tempo e dall’incuria degli uomini possano conservare l’impronta dell’originaria struttura; ma più d’ogni altra cosa, risorto dai ruderi, l’imponenza del baluardo ghibellino, onde le mura digradano nella loro primitiva maestosità, mentre in alto si ergono, rinnovate nei maschi, nei camminamenti, le penne turrite della Guaita e della Cesta secolare testimonianza del perpetuo amore alla libertà fremeva quando vedeva il Paese deturpato da indegni restauri, da anacronistiche costruzioni; deplorava le rustiche case mascherate d’intonaco, le vecchie bancaline sostituite da vetrine di pessimo gusto, le vecchie logge murate o demolite, i pochi sesti acuti, le quattrocentesche piccole finestre incorniciate di pietra, ampliate e deturpate con bianchi rattoppi di gesso; gli sporti di legno e laterizi sostituiti con cornici di pietra; soffriva che i Sammarinesi si mostrassero talvolta dimentichi della propria storia. Era fieramente contrario che nel centro cittadino sorgessero scheletri e piattabande di cemento e di ferro mascherate con lastre di pietra o di marmo; e non per avversione alla voga dei tempi, lui che poteva considerarsi l’inventore del cemento armato, ma perché paramenti in blocchi di pietra da taglio, strutture architettoniche ad archi e pilastri erano più rispondenti alle vecchie buone regole dell’arte sammarinese, perché la pietra costituiva l’elemento naturale del Titano, perché a tale sistema costruttivo le maestranze locali erano particolarmente addestrate per antica tradizione. Era d’avviso che il Paese potesse mostrare il suo carattere decoroso ed artistico senza l’uso dell’intonaco e dello stucco, senza appariscenti coloriture, senza decorazioni scimmiottanti un’arte che sul Titano non è mai esistita; ché se per arte s’intende ogni forma in cui sia espresso il carattere d’una gente, San Marino n’ebbe una sola, quella che rispecchia la gagliarda tempra dei suoi abitanti nelle rozze e robuste opere di difesa. E Zani ha saputo far rivivere lo spirito generoso delle sacre tradizioni della piccola patria, si che le sue opere hanno uno stile inconfondibile, tale da avere felicemente creato e determinato un’epoca artistica sammarinese. Egli che apparteneva a una generazione di Sammarinesi che va scomparendo, che sentiva nel più profondo dell’anima l’amore per la nostra Repubblica, ha levato con l’opera e con gli scritti il più fulgido inno al nostro glorioso passato, un allarme per il presente, un monito per l’avvenire.

 

Commemorazione Gino Zani

Lo Stato, in occasione del 50ennale della morte di Gino Zani (1964-2014), gli farà gli onori: all’ingegnere verrà dedicata una via (dall’incrocio di via Maccioni con viale Donna Felicissima sino al punto in cui quest’ultimo si interseca con via Paolo III) che verrà inaugurata ad inizio febbraio 2015 mentre già a dicembre (il 6 per l’esattezza) il teatro Titano farà da cornice ad un convegno dedicato alle sue opere. Lo stesso giorno inoltre è in programma il taglio del nastro di una mostra sui suoi progetti, visitabile sino al 6 febbraio all’interno della Galleria San Francesco.

Infine, come ha annunciato recentemente il segretario di Stato alla cultura Francesco Maria Morganti, “verrà ricostruito, nella biblioteca di Stato, il suo studio”.

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