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San Marino, Projet 192. Le parole di Paolo Rondelli

da Redazione

“Un popolo diviene collettività se ha memoria delle sue tradizioni, dei fatti che lo hanno unito e che nel corso dei decenni ne ha plasmato l’identità collettiva”.

 

di Paolo Rondelli

 

Memoria, storia, identità, comunità. Quattro sostantivi, quattro binari che si incrociano in una ideale stazione ferroviaria a formare quel treno dei ricordi che a volte va a costituire un evento iconico che colpisce nella immaginazione collettiva e diviene patrimonio comune di un popolo o, addirittura, del mondo.

L’oggi ci ha abituato a immagini che scorrono veloci, a notizie giornalistiche fugaci che al massimo reggono per una settimana e poi cadono nel dimenticatoio: un omicidio, l’esondazione di un fiume, un incidente che porta via una vita. Il dolore, lo strazio, la rabbia che i social network pompano in un tam tam mediatico che dura spesso lo spazio di un pensiero. Ma poi cosa resta di questa comunicazione fugace?

Un popolo diviene collettività se ha memoria delle sue tradizioni, dei fatti che lo hanno unito e che nel corso dei decenni ne ha plasmato l’identità collettiva. Quell’esperienza che la memoria richiama attraverso il vissuto prima individuale e poi collettivo porta a fissare i motivi del cambiamento ed i suoi risultati.

Ma vi sono fondamentali differenze fra la memoria che deriva dal fare esperienza e da quella che deriva dall’avere esperienza. Se nel primo caso possiamo considerare ricada qualcosa che rompa la routine del quotidiano ed abbia necessità di una sedimentazione e di una metabolizzazione, nel secondo siamo nella routine dell’abitudine, delle situazioni consolidate, della consuetudine. La memoria che la storia ha in sé è proprio in questa differenza, il soggetto prima, poi la collettività registra un elemento di novità, una emozione, una immagine, un fatto e lo fa proprio (oppure lo respinge, ma non ne resta indifferente), definendone nuovi contorni, nuove interpretazioni, nuovi significati.

Successivamente lo riutilizza, ovvero lo interrelaziona con le proprie scelte, abitudini, attitudini fino a farlo divenire parte di sé, del proprio vissuto, della propria storia e magari lo racconta.

Un fatto accaduto, significativo viene sviscerato dagli storici, viene sezionato, portato alla luce, interpretato, e tanto più ha risalto tanto più necessita di una mediazione per essere reso disponibile a più persone.

Un evento tragico, come furono le stragi di Madrid del 2004, è un evento che mediaticamente ha segnato quel periodo, ha fatto piangere la gente, che ha compreso la paura di un qualcosa che non si pensava potesse avvenire, ha percepito una fragilità che non pensava di avere.

Un fatto tragico che ha cambiato il corso della storia ha la necessità di essere ricordato, di essere celebrato, di essere reso “fruibile” a chi non lo ha vissuto, affinché la memoria della comunità non sbiadisca mano a mano che gli individui che lo hanno vissuto in diretta, per usare un eufemismo mediatico, vengono meno.

Da qui l’obbligo morale di costruire la memoria di quell’accadimento, di quella storia lontana, di quelle emozioni, perché quell’accadimento costituisce parte dell’identità attuale della comunità. Pensare oggi a un’Italia senza la memoria della Resistenza, dell’occupazione nazista, dello stragismo degli anni ’70 vorrebbe dire vivere in un’altra Italia, dove tutto è senza un motivo, senza una radice, senza una identità collettiva.

Projet 192 fa questo: costruisce la memoria e la conserva, fissandola nei pixel di un frame fotografico destinato a restare nel cuore di chi lo vede fra i quasi 200 scatti esposti, rendendo omaggio a 192 persone e a un bimbo mai nato, a noi che siamo vivi e magari ricordiamo le immagini di Atocha fumante dopo l’esplosione e non vorremmo mai rivederle, a quei ragazzi che per la prima volta vedranno queste immagini e scopriranno un evento che ha cambiato il corso della storia spagnola recente. La memoria è storia, la costruzione della storia rende indelebile la memoria.

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