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Il Titanic: a 100 anni esatti dall’affondo della belle époque

da Redazione

Cento anni fa o poco più affondò la belle époque. Finì nei gelidi gorghi dell’Atlantico, adagiandosi, spezzata in due, sul fondale sabbioso a quattromilametri di profondità. C’è chi l’ha vissuta, chi l’ha cantata, chi l’ha resa in poesia: la tragedia del Titanic è una pagina immortale che da sempre ispira lirismo.

ELZEVIRO

 

di Alessandro Carli

 

C’è la classe operaia (“L’abbigliamento di un fuochista”) che sogna, attraverso gli occhi di una madre (Giovanna Marini) che aspetterà invano il ritorno di suo figlio, un riscatto che mai arriverà perché starà sempre su “questa nera nera nave che mi dicono non può affondare”. E che è, a mio avviso, il pezzo più bello di Francesco De Gregori, specie quando dice “ma mamma a me mi rubano la vita quando mi mettono a faticare / per pochi dollari nelle caldaie, sotto al livello del mare”. La magia è nel verbo “rubano”, che Francesco De Gregori lo dice con due b, un po’ romanesche, di certo volutamente strascicate: “rubbano”.

C’è l’intera società divisa rigorosamente in classi (“Titanic”) che canta e balla sognando l’amore forse impossibile tra la ragazza di quindici anni che viaggia in prima (“Ci sta mia figlia che ha quindici anni e che a Parigi ha comprato un cappello”) e il ragazzo di terza che, chissà, forse, riuscirà a baciarla (“E com’è bella la vita stasera, tra l’amore che tira e un padre che predica”).

C’è infine la classe dirigente (“I muscoli del capitano”), forte e ben salda al comando (“Il Capitano non tiene mai paura, dritto sul cassero fuma la pipa, in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita”), sorda ad ogni avvertimento e fiera della sua potenza (“La nave è fulmine torpedine miccia, scintillante bellezza fosforo e fantasia, molecole d’acciaio pistone rabbia, guerra lampo e poesia”, che a provarci, è assolutamente impossibile per ogni altro essere umano addensare in una manciata di aggettivi la descrizione di una nave), totalmente ignara di andare verso la catastrofe (“Tiriamo avanti tranquillamente”).

C’è chi l’ha vissuta, chi l’ha cantata, chi l’ha resa in poesia, come Hans Magnus Enzenberger, che ha scritto qualche anno fa un libro intitolato “La fine del Titanic”.
Cento anni di storie nel regno di Nettuno, di tragedie – ultima, quella dell’Isola del Giglio, ma solo perché più vicina a noi – perché poi non si smette mai di andare per mare.
Cento anni dall’iceberg feroce e non visto, quella lastra beffarda che ha inabissato il capolavoro di tecnologia, in quel lontano aprile del 1912.

La nave era, allora, il non plus ultra della tecnica, e a bordo c’erano molti milionari autentici (i miliardari erano probabilmente di là da venire).

Fu la fine della belle époque. Quel che venne dopo non fu la fine del mondo, ma la prima rata, la Prima guerra mondiale. Enzensberger lo riprende nel quadro della sua analisi negativa del progresso: analisi negativa non in quanto escluda la possibilità di inquadrare il progresso in orizzonti positivi, ma in quanto constata che finora è stato sempre accompagnato dall’ombra della follia – nella vita degli uomini, nei loro ritrovati e nelle loro teorie -, e che alla fine la somma del progresso è ampiamente soverchiata dalla somma di quella stessa follia.

“In realtà non è accaduto nulla” scrive Enzensberger. La fine del Titanic non ha avuto luogo: era solo un film, un presagio, un’allucinazione. Affondiamo in silenzio. Immobile giace, come nella vasca da bagno, l’acqua, nello smagliante bagliore del Salon delle Palme, delle palestre, dei foyers, rispecchiandosi negli specchi. Nero inchiostro i minuti, rappresi come in gelatina. Solo all’ultimo – la buia prua si è rizzata a strapiombo dal nulla come una torre assurda, le luci nello scafo si sono spente, nessuno guarda l’orologio – solo allora un inaudito boato disintegra il vitreo torpore: “Fu un gemito, no, un rombo, un fragore, un ripetuto rimbombo di colpi, come se in un’unica volta oggetti, pesanti tonnellate, fossero capovolti negli abissi, e che quelle incommensurabilmente ponderose cose, cadendo, frantumassero tutto. Fu un rumore quale mai alcun essere umano aveva percepito, e che nessuno di noi, fin tanto che vivrà, si augura di udire mai più”.

Da quell’attimo in poi la nave smise di esistere.

Dopo, ci furono le urla.

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