Home FixingFixing P2, P3, P4… Ma i lobbisti non sono i cattivi per antonomasia

P2, P3, P4… Ma i lobbisti non sono i cattivi per antonomasia

da Redazione

kennedy

 

Le recenti inchieste hanno puntato il dito contro il rapporto tra politica e gruppi di pressione. Negli USA sdoganati già da JFK. In Italia il sistema di autoregolamentazione non funziona.

 

kennedy

 

 

di Saverio Mercadante

 

“I lobbisti sono quelle persone che per farmi comprendere un problema impiegano dieci minuti e mi lasciano sulla scrivania cinque fogli di carta. Per lo stesso problema i miei collaboratori impiegano tre giorni e decine di pagine”. Ancora. “I lobbisti che parlano in rappresentanza degli interessi economici, commerciali e di altro tipo sono estremamente utili e hanno assunto un ruolo importante nel processo normativo”. Lo scriveva John F. Kennedy sul New York Times il 19 febbraio del 1956. E del presidente assassinato a Dallas è anche la prima dichiarazione d’apertura. In tempi di P4, all’ombra dell’ex piduista Luigi Bisignani e dell’ex magistrato, ora parlamentare del PDL, Alfonso Papa, coinvolti dall’indagine della procura di Napoli, forse, una citazione alta come quella da Alexis de Toqueville, può liberarci dai veleni che hanno sempre circondato i cosiddetti lobbisti all’italiana. “Gli americani di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutte le opinioni, continuamente costituiscono delle associazioni”, affermava il filosofo della politica. Attraverso le quali sin dal 1789, considerato l’anno di nascita del lobbismo americano, in occasione della prima legge doganale, già ci si poneva l’obiettivo di influenzare il Congresso di Stato. Due anni dopo, nel 1791, nel Primo Emendamento della costituzione americana era normato il “right to petition”, ovvero “il potere dei gruppi di pressione di esercitare la propria influenza sui decisori pubblici” e non la semplice possibilità di presentare petizioni. Nel 1946 gli USA si sono dotati di un Federal Regulation of Lobbying Act. La legge prevedeva “per chiunque volesse influire sul processo legislativo, l’obbligo di registrarsi presso un apposito albo” presso le Camere, di indicare “gli interessi tutelati” e soprattutto “le somme di denaro ricevute o consegnate”, di rendicontare ufficialmente la propria attività. Il tutto con annesse sanzioni in caso di violazione delle regole. Nel 1995 la legge è abrogata e sostituita da una norma con lo stesso spirito (Lobbying Disclosure Act), che amplia e dettaglia per esempio la definizione di “lobbista” e di “pubblico ufficiale dell’esecutivo”. Dagli anni Settanta negli Stati Uniti si è legiferato sul fenomeno delle “revolving doors”, “vietando agli ex funzionari pubblici di ‘ritornare’ nelle amministrazioni da loro in precedenza dirette, in veste di lobbisti”. Anche fisicamente, a testimonianza plastica di un diritto riconosciuto alla luce del sole, a Washington, le due aree, quelle dell’influenza sul potere e quella del potere, sono separate. Da una parte, K Street è nota come l’indirizzo di gran parte delle lobby americane, associazioni di categoria, gruppi di pressione. Dall’altra, Pennsylvania Avenue, su cui si affacciano la Casa Bianca, Capitol Hill e le sedi del Congresso e della Corte Suprema. Nell’UE il crescente aumento delle competenze delle istituzioni comunitarie ha contribuito alla diffusione dell’attività lobbistica, che stima oggi circa 2.600 addetti ai lavori. Secondo alcune valutazioni degli esperti, il 43 per cento sono gruppi di interesse italiani. Nel 2008, nel contesto dell’iniziativa europea per la trasparenza, la Commissione ha istituito un registro dei rappresentanti di interessi al fine di permettere ai cittadini di conoscere quali interessi generali o specifici si adoperano per influire sul processo decisionale delle Istituzioni europee e quali risorse vengono utilizzate per perseguire tale fine. Si tratta di un registro volontario che non prevede alcuna procedura formale, né regola amministrativa per l’accreditamento dei rappresentanti di interessi alla Commissione europea. Il sistema di autoregolamentazione, però, non ha sortito gli effetti sperati. Solo un esiguo numero risulta iscritto ed inoltre, alcune categorie di lobbisti – soprattutto studi legali e think-tanks – in realtà boicottano il registro. Questo significa che una larga parte del lobbying di Bruxelles è sostanzialmente invisibile. Un parlamentare europeo riceve mediamente settanta visite di lobbisti al mese. L’unico modo per superare l’empasse sarebbe, sulla scorta delle regole imposte ai lobbisti nel Congresso di Washington, l’adozione rapida di un registro obbligatorio contenente i nomi, le informazioni sulle fonti di finanziamento e il regime sanzionatorio applicabile ai trasgressori. In Italia dal 1948 al 2010 sono stati presentati quasi quaranta disegni di legge in materia di gruppi di pressione e nessuno è stato mai approvato. Secondo gli analisti, l’attività lobbistica viene svolta in Italia da circa 1.200-1.500 addetti, per un fatturato di 45 milioni di euro. I lobbisti di fatto si possono dividere in tre categorie in Italia. I direttori dei rapporti istituzionali delle grandi aziende, i consulenti e i free lance, ovvero i cani sciolti. Soprattutto quest’ultima categoria è quella che raccoglie personaggi di ogni genere. Il riconoscimento normativo del lobbying è quanto mai auspicabile in una società occidentale avanzata. Il networking, ossia incontrare rappresentanti delle istituzioni e delle aziende, per poi metterli in relazione, è di ordinaria amministrazione per un lobbista. Così come fare dossier e proporre disegni di legge. Il tutto fa parte della routine del lavoro di lobbying. In Italia, secondo gli analisti, sono circa 500 mila le aziende che hanno bisogno di un contatto con le istituzioni.

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