Home FixingFixing Lo Stivale che opera in nero: la demagogia e i suoi danni

Lo Stivale che opera in nero: la demagogia e i suoi danni

da Redazione

Lo sanno anche i sassi e le ranocchie che in Italia tutti cercano di non pagare le tasse. Nella rubrica Prima Nota, pubblicata sul numero attualmente in edicola del settimanale Fixing, il nostro Paolo Brera affronta alcune riflessioni provocatorie sull’evasione fiscale. Perché se tutti pagassero le tasse, paradossalmente ci sarebbe un problema di debito pubblico. Quei falsi miti da sfatare, insomma.

di Paolo Brera

 

Lo sanno anche i sassi e le ranocchie che in Italia tutti cercano di non pagare le tasse. L’atteggiamento si incontra anche in altri Paesi, ovviamente, e nella storia ha dato origine a guerre quali quella della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa e delle Tredici Colonie americane contro Giorgio V. Al di là delle guerre, schivare il fisco è attività quotidiana in tutto il mondo. Ma l’Italia sembra essere particolarmente dedita ad essa, e lo dimostrano una serie di cifre rilasciate nei giorni scorsi dall’Istat.
Stando all’Istituto Statistico, il valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa nel 2008 è «compreso tra un minimo di 255 miliardi e un massimo di 275 miliardi di euro, pari rispettivamente al 16,3% e al 17,5% del pil». Se si considera «solamente l’economia di mercato, al netto della Pubblica amministrazione… il peso del sommerso è del 20,6% contro il 17,5% calcolato sull’intera economia». Sempre secondo l’Istat, «tra il 2000 e il 2008 l’ammontare del valore aggiunto sommerso registra una tendenziale flessione, pur mostrando andamenti alterni: la quota del sommerso economico sul Pil raggiunge il picco più alto, 19,7%, nel 2001, per poi decrescere fino al 2007, 17,2%, e mostrare segnali di ripresa nel 2008, 17,5%».
Evadere per un sesto di quanto si produce è difficile, e i metodi devono per forza articolati. Le operazioni di nascondere ricavi ed esagerare i costi costituiscono «la parte più rilevante del fenomeno». Dato che in Italia una parte notevole del prelievo fiscale è fatta di contributi, a carico dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro, c’è anche una buona dose di lavoro nero, fatto di prestazioni eseguite e pagate senza alcuna dichiarazione al Fisco. Il lavoro irregolare, nel 2009, ha coinvolto 2.966.000 unità – come dire 74 e passa volte la popolazione di San Marino – in crescita rispetto ai 2.958.000 del 2008, cifre pari rispettivamente al 12,2% e all’11,9% della forza lavoro complessiva dell’Italia. Questa «modesta crescita», secondo le parole dell’Istat, è da imputarsi alla crisi economica: nell’ultimo biennio, infatti, si «evidenzia una riduzione complessiva dell’occupazione pari a 660.000 unità, con una forte contrazione del lavoro regolare (-668.000), accompagnata da una lieve crescita del lavoro non regolare (+8.000)».
Cifre impressionanti, che i media italiani assoggettano da decenni a un medesimo trattamento: deplorare sonoramente la disonestà degli evasori e asserire che se si “recuperasse” questa evasione non esisterebbe il problema del deficit pubblico, il quale in Italia non è particolarmente grave rispetto ad altri Paesi europei o agli Stati Uniti però confina con il problema, che invece è assai più serio, del debito dello Stato (circa 115% del pil). Si tratta di un’argomentazione demagogica che diverse voci si sono levate a criticare. Per esempio, il quotidiano berlusconiano Il Giornale ha messo l’accento sull’andamento della spesa pubblica. Nel 2009, scrive l’articolista, questa ha sfiorato gli 800 miliardi di euro, attestandosi precisamente a 798.864 miliardi, ed è così risultata in crescita per il terzo anno consecutivo: oggi dunque supera la metà del pil dell’Italia.
Il valore totale delle uscite, insomma, è tornato a incidere sull’economia italiana in misura analoga a quella registrata nel 1996, quando il rapporto spesa-pil ammontava al 52,6%. Nel confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea la spesa pubblica italiana risulta meno elevata solo rispetto ai Paesi scandinavi, il cui Stato sociale assorbe, e ridistribuisce, risorse molto considerevoli. Le uscite pubbliche, anche se di per sé non danno conto del contributo dello Stato al benessere sociale, misurano nel modo più accurato il peso dello Stato sulla società. Quello che viene speso dallo Stato lo Stato lo deve prelevare dalla società: a titolo definitivo, come prelievo fiscale, oppure transitorio, come prestito fatto alle casse pubbliche. La restituzione del prestito non potrà poi avvenire se non attraverso la tassazione.
Già oggi, il peso dell’imposizione fiscale è in Italia al livello di quella francese, cioè intorno al 43-44% del pil. Si tratta di un calcolo macroeconomico, che rapporta il prelievo al prodotto interno lordo complessivo, stimato includendo anche il settore informale (quello che non paga le tasse). Ma gli introiti delle tasse, come avrebbe detto La Palice, vengono solo da quelli che le tasse le pagano. Perciò il peso dell’imposizione fiscale prevista dalla legislazione italiana, con un semplice calcolo, risulta essere il 50,5% del reddito. Più di metà. È chiaro che il cittadino paga volentieri le tasse se sa che i proventi finanziano politiche che condivide, e quindi tanto più volentieri le paga quanto più democratico è il Paese. Cioè, in termini forse un po’ cinici ma abbastanza esatti, quanto più i governanti tengono conto delle sue preferenze (non lo fanno mai al 100%). Questo è anche il fondamento etico dell’obbligo di pagare le tasse. Nella Germania nazista, per usare un esempio estremo, non poteva esistere per un ebreo un obbligo di pagare le tasse sancito dall’etica, visto che lo Stato si serviva di questi mezzi per annientare lui stesso e i suoi familiari. Quasi tutti coloro che parlano di tasse tendono a scordarselo: la legittimità delle tasse è la legittimità del governo.

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