Stefano Pasqui: “La selezione va fatta in maniera professionale, sia dalle aziende che dai disoccupati. Contano le conoscenze? Siamo tutti figli del nepotismo, ma la logica è sbagliata”.
di Daniele Bartolucci
Il nuovo mercato del lavoro e la vecchia logica del nepotismo che governa la selezione del personale: è sempre più difficile districarsi tra le offerte di lavoro, ma “il fosso della disoccupazione si fa con due sponde”, ricorda Stefano Pasqui, psicologo e docente dei corsi di formazione ANIS, “quindi riguarda i lavoratori che cercano un’occupazione, ma anche le imprese che li devono scegliere”. Un punto di partenza è comunque il Curriculum Vitae, tornato alla ribalta dopo le dichiarazioni poco felici del Ministro Giuliano Poletti, da cui Pasqui prende spunto per parlare del tema che probabilmente si cela dietro: “Forse il Ministro voleva parlare di fiducia, che non si crea con un CV, ma forse non si guadagna nemmeno con una partita di calcetto, anche se può essere un’immagine abbastanza efficace del fare squadra, lavorare insieme, avviare un progetto”.
Quanto conta la fiducia nell’avvio di un rapporto di lavoro?
“In Italia abbiamo una storia, quindi una cultura, di nepotismo. Anzi, credo che l’abbiamo inventato proprio noi. In sintesi lo potremmo tradurre così: mi fido dei parenti e non degli estranei, anche se, come insegna anche il film ‘Parenti serpenti’, si capisce bene quanto tale fiducia sia spesso malriposta. Una logica che, trasportata in azienda, è rischiosa e spesso controproducente, ma è una logica che non è facile da eliminare”.
Ma come può emergere un candidato fuori da quel ristretto giro di conoscenze?
“Le aziende, quando serve un certo tipo di lavoratore, chiedono in giro, nel loro giro di fiducia. Magari allargano la richiesta ad amici e altre aziende partner con cui lavorano da anni. Però, subito dopo, cercano nei CV”.
Quindi il CV torna ad essere importantissimo.
“La fiducia è una cosa seria, non la crea certamente il Curriculum Vitae, parafrasando Poletti. Ma è anche vero che un CV fatto bene è un primo segnale di quanto la persona sia competente, preparata e soprattutto attenta al proprio lavoro. Le informazioni, se inserite in maniera corretta, mi fanno subito una bella impressione, ma al contrario se è un lavoro fatto male, ne lascia una molto più brutta. Le ricerche dicono che servono poi 6 o 7 fattori per eliminare la prima impressione. Quindi è importante che le informazioni che inseriamo facciano presa su chi le legge”.
Quali informazioni inserire, dunque?
“Devono essere monitorate le proprie esperienze lavorative, ma è importantissimo saperle raccontare, elencando sia gli aspetti positivi, quello che da quel lavoro ha imparato, sia le criticità. Ciò significa anche aggiungere le capacità che ha acquisito. Se ho fatto la commessa in un bar, ad esempio, devo parlare di rapporti umani e di gestione della clientela, magari anche straniera”.
Quindi non basta la mansione svolta, ma sono importanti le competenze?
“Scrivere solo ragioniere o commesso non ha molto valore. Il CV va pensato tenendo conto che si deve comunicare all’altro qualche cosa di significativo, che incuriosisca. Occorre riflettere bene su ciò che si è fatto e su cosa si è imparato a fare, e bisogna aggiungerlo nelle proprie competenze e capacità, perché denota attenzione. E le aziende sono molto sensibili a questa capacità: questa persona quando lavora riflette su ciò che fa”.
Passiamo al passo successivo: il CV è aggiornato e ben fatto, facciamo buona impressione e ci chiamano per il colloquio.
“Qui entriamo nell’ambito dell’azienda che ci deve assumere. Se la selezione si facesse in un certo modo, si potrebbe sondare anche quanta fiducia può riporre su quel candidato, oltre ai punti guadagnati con il CV. Ovviamente questo si traduce in un colloquio, ma sarebbe fondamentale prepararlo con criterio, non fatto lì per lì. L’azienda dovrebbe porsi delle domande sul candidato: cosa deve andare a fare? Come e con quali strumenti? Da solo, in squadra o sotto comando di una leadership? In italiano? Al colloquio quindi, l’azienda deve andarci con le domande giuste e la scheda di osservazione. Deve sapere cosa osservare della persona che ha di fronte, sennò si cerca l’ago nel pagliaio”.
Anche per il colloquio non ci si prepara bene?
“E’ uno scambio di informazioni, se tutti fossero preparati andrebbe tutto bene. E vale per l’azienda quanto per il lavoratore, che deve sapere le cose che sa fare e quelle che potrebbe non sapere fare”.
Ciò, però, non basta a creare fiducia.
“Infatti le aziende potrebbero dubitare di ciò che emerge nel CV e nel colloquio, tanto è vero che la nuova frontiera della selezione delle risorse umane avviene ormai sui social. Lì si vede tutto. Lo abbiamo detto anche ai corsi per disoccupati che facciamo con ANIS e CSU: sono informazioni rintracciabili, quindi attenzione a cosa pubblicate”.
Siamo tutti controllati, quindi?
“Viviamo nel 2017, non possiamo evitarlo. Ma vale anche per le aziende: prima di inviare CV o fare colloqui è bene studiarsi l’azienda. Consiglio a chi è disoccupato e ha del tempo libero, di navigare su internet e visitare i siti delle aziende che gli interessano, capire cosa cercano e quali attività potrebbero essere interessate alle sue capacità”.
Un impegno, che si somma alla formazione a cui ogni lavoratore, dovrebbe rapportarsi.
“In pochi si informano sulle aziende a cui mandano CV, come sono ancora pochi quelli che sfruttano il periodo di disoccupazione per formare o aggiornare competenze. Purtroppo, essendo tutti figli del nepotismo, non pensiamo che il processo di selezione possa diventare una cosa seria. Dobbiamo invece far diventare la selezione – da tutte e due le parti – una cosa professionale”.