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Lavoro e previdenza: il “welfare mix” del Monte Titano

da Redazione

Nel documento elaborato dal “tavolo tripartito” per il Centenario dell’OIL si dettano le linee per riformare la previdenza e il mercato del lavoro.

 

di Daniele Bartolucci

 

Verso un nuovo mercato del lavoro, al centro di un sistema previdenziale che sappia coniugare le nuove esigenze di sostenibilità (del Bilancio dello Stato e dei fondi pensione, in primis) con le necessità delle imprese, ovvero formazione e flessibilità. Ufficialmente nato come contributo di San Marino al prossimo centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel 2019, il “paper” elaborato dal tavolo tripartito sammarinese è una road map verso quelle riforme che il Titano sta elaborando da tempo e che, dopo lo stop delle elezioni anticipate, probabilmente dovrà portare a compimento in pochi anni, alcune prima del centenario stesso.

 

DALL’ANALISI DEL SISTEMA ALLE RIFORME DEL FUTURO

Che dall’analisi della situazione si passi quanto prima alle riforme vere e proprie è un dato quasi incontrovertibile, anche perché, oltre ad una consapevolezza sempre più diffusa, tutti gli attori della vita economica e sociale del Paese hanno condiviso non solo l’analisi della situazione, ma anche, in linea teorica, anche le possibili soluzioni per il prossimo futuro. Il tavolo tripartito, infatti, investito dell’onere di elaborare questa relazione, era composto da tutte le sigle sindacali registrate della Repubblica: CSdL, CDLS, USL, ANIS, OSLA, UNAS, USOT, USC (oltre alla rappresentanza di Governo). Il lavoro è stato strutturato quindi in due parti: “La presentazione dell’esistente alla luce della pesantissima crisi finanziaria e economica post 2008 e quali ricette si sono già approntate anche per rispondere ai quesiti oggetto delle 4 conversazioni OIL in vista del centenario 2019; cosa fare per raggiungere i nobili obiettivi perseguiti dell’Organizzazione del Lavoro (v. The future of work, ILO) e condivisi dalla Repubblica di San Marino e dalle diverse realtà sindacali esistenti e partecipanti a questo lavoro”.

 

SICUREZZA SOCIALE: COSTI AUMENTATI NEGLI ANNI

“La Repubblica di San Marino ha introdotto importanti istituti di welfare a sostegno delle fasce di popolazione meno abbienti e, più generalmente, per l’intera popolazione a partire dagli anni ’50 del secolo scorso”. Ma “a fronte di un sistema di welfare state che potremmo definire “generoso” in termini di previdenza sociale e assistenza (compresa quella sanitaria), si inizia registrare più di una complessità nel continuare a finanziare a livello pubblico l’incremento del costo legato alle prestazioni, senza che allo stato si sia passati per una revisione in termini di sostenibilità e adeguatezza di tali istituti”. I numeri parlano chiaro (si veda la tabella in alto): nel 2014 le prestazioni sociali sono “costate” ben 314.904.320 euro, suddivise tra previdenza (222.880.631 euro), assistenza sociale (23.079.121 euro) e sanità (68.944.568 euro). “Il dato, di per sé, sarebbe poco indicativo, se non fosse che le entrate tributarie per il 2014 sono state pari a 484.441.797,27 di euro e le uscite pari a 502.953.161,43 di euro”. A parte i contributi pensionistici (e il patrimonio accumulato che si sta erodendo), “tutto il restante impianto di welfare è sorretto dalla collettività tramite la raccolta fiscale oltre al citato indebitamento dello Stato stesso”. Insomma, “non v’è dubbio che il primo quesito attiene alla possibilità di poterne sostenere i costi”. Il gruppo di lavoro sostiene quindi che “siamo ragionevolmente al cospetto di un necessario ripensamento del complessivo sistema di sicurezza sociale” e “in questo senso vanno le recenti proposte di modifica del sistema complessivo di previdenza sociale per una sua maggiore sostenibilità finanziaria e allo stesso tempo per una migliore allocazione delle risorse a favore dei soggetti più bisognosi”, anche attraverso l’introduzione dell’ISEE per agire equamente. Riguardo al mercato del lavoro, infine, “merita di essere focalizzata l’attenzione sul costo per ammortizzatori sociali (Cassa integrazione guadagni, Mobilità, Disoccupazione …)”, posto generalmente in capo a datori di lavoro e lavoratori, “è passato velocemente dai 12,7 milioni di euro del 2008 ai 20,5 milioni del 2014, con intervento dello Stato pari a 8,4 milioni di euro”.

 

FORMAZIONE CORRELATA AI DESIDERATA DEL MERCATO

“E’ necessario che i nostri futuri lavoratori siano in condizione di potersi muovere e prestare la propria attività senza ostacoli a livello globale”, per cui, “il primo step di intervento deve riguardare la formazione e l’aggiornamento professionale”, ma soprattutto “la capacità di sapere correlare i piani scolastici, in termini di offerta di futuri lavoratori, all’effettiva domanda di professionalità del mercato”.

Possibili soluzioni? “L’alternanza scuola lavoro, l’utilizzo di stage per apprendere un mestiere, lo sviluppo delle scuole professionali esistenti sarà sempre più elemento qualificante per un buon futuro dei giovani che entreranno nel mondo del lavoro […] La messa a regime di queste (apparentemente) semplici ricette dovrebbe di per sé consentire ai futuri lavoratori di non temere affatto i cambi di sede di lavoro, gli spostamenti per cercare l’occupazione più confacente alle proprie aspirazioni e, più ancora, di essere interessanti in termini di profilo per il mercato del lavoro”.

 

AGGIORNAMENTO: IL RUOLO DELLE IMPRESE

Venendo alla formazione e all’aggiornamento professionale, “questi elementi devono essere sempre presenti nella vita di ciascun lavoratore”. Ma chi deve occuparsene? “Lo Stato di per sé è difficilmente in condizione di comprendere di quali aggiornamenti o formazione necessiti il lavoratore o potenziale tale, per questo dovrebbe delegare alle parti sociali o interagire con esse per favorire e garantire la partecipazione dei lavoratori a percorsi di formazione e di aggiornamento”. Nel caso di inoccupati o disoccupati (ammortizzatori sociali, ndr) “la partecipazione a percorsi di formazione e aggiornamento deve essere condizione necessaria per poter continuare a fruire dei benefici di legge”. Il tutto perché “un lavoratore aggiornato difficilmente rimarrà senza una buona occupazione, salvo casi rari”. Inoltre, “lavoratori più formati e aggiornati anche in entrata garantiscono alle imprese di poter meglio operare e una maggiore produttività e redditività, oltre a consentire a queste di affacciarsi a mercati stranieri sin qui non esplorati o esclusi a priori. Bisogna naturalmente creare quelle condizioni che consentano una piena mobilità in entrata e in uscita dei lavoratori dalle diverse realtà nazionali, senza per questo creare fenomeni pericolosi di concorrenza al ribasso in termini di diritti e tutele in funzione dell’incremento di offerta rispetto alla domanda”.

 

MAGGIORE MOBILITÀ SIGNIFICA NUOVE TUTELE

“Il tema legato al nuovo mondo del mercato del lavoro passa anche per il più generale tema della sicurezza sociale e, più generalmente, del welfare”, infatti “maggiore mobilità nel mercato del lavoro significa anche più elevata necessità di assistenza e sostegno nelle diverse fasi di transizione (per il lavoratore e la propria famiglia), nonché previsione di strumenti utili a consentire a questo di trasferirsi altrove per poter svolgere la propria attività professionale. Il tutto naturalmente senza dimenticare gli aspetti legati alle coperture per infortuni, malattie, non autosufficienza e ovviamente quelli afferenti alla contribuzione e maturazione di una prestazione pensionistica adeguata”. Dovendo fare i conti con una realtà che vede gli istituti canonici in crisi (fondi pensione statali o statalizzati, tagli alla previdenza e alla sanità…), “la linea condivisa è stata quella di saper ragionare su logiche di welfare mix”.

 

LA POSSIBILE SOLUZIONE È NEL CONTRATTO DI LAVORO

“La soluzione al tema della mobilità e precarizzazione del lavoro”, secondo i componenti del Gruppo, “difficilmente potrà passare per un arroccarsi in divieti legislativi o cosmesi legali definitorie”, ma “l’unica soluzione pare quella di ricollegare tutta una serie di previsioni e tutele al contratto di lavoro. Il rapporto di lavoro diviene, quindi, la sede naturale non solo per discutere di compenso, orari e mansioni, ma per far accedere il lavoratore a meccanismi mutualistici che possano intervenire in ipotesi di perdita del rapporto di lavoro, della malattia, infortunio e non autosufficienza di quest’ultimo o dei suoi familiari a carico, della morte dello stesso”. Inoltre, l’idea per il futuro “deve essere sempre più quella di giudicare la qualità dell’offerta di lavoro non in ragione del compenso monetario da percepirsi, quanto invece delle forme di benefit e welfare ad essa collegate (es. premi di produttività, asili nido aziendali, coperture odontoiatriche e per la non autosufficienza,…).

Benefit, quali, ad esempio, gli asili aziendali sono poi anche una risposta al necessario incremento dell’occupazione femminile, semplificando e di molto la vita delle lavoratrici e consentendole di attendere alla vita lavorativa, con profitto per le stesse e le imprese che hanno investito su di loro”.

 

LE RISORSE NECESSARIE GIÀ IN BUSTA PAGA

Da dove possono provenire le risorse per finanziare benefit e assistenza? “A fronte di un aumento delle prestazioni accessorie di contratto, si riducono le esigenze e i rischi di spesa per il lavoratore, e quindi si può parzialmente ridurre il compendio stipendiale contrattuale. In più, se il legislatore rendesse fiscalmente conveniente per l’impresa e per il lavoratore il riconoscimento di benefit contrattuali in luogo di corresponsioni in danaro, allora il meccanismo si renderebbe ancor più virtuoso”. Non solo: “Se i benefit sono poi resi da centri di servizio in forma specifica (dentisti convenzionati, RSA, …) all’interno del territorio nazionale, allora si eleva la stessa domanda di prestazioni presso tali realtà, con possibile incremento di occupazione e PIL. Veicolare risorse verso realtà “casse” aziendali o interaziendali significa poi aumentarne il patrimonio che, a sua volta, può essere parzialmente (per piccole quote) investito in economia “reale” con ulteriore incremento di servizi per la collettività e posti di lavoro. E’ certo che se si guardi alla sola San Marino, difficilmente si potranno conoscere realtà di accumulo o ripartizione a livello aziendale (dati i piccoli numeri), essendo più facile e utile ragionare per “settori” di produzione o a livello di intera collettività dei datori e dei lavoratori. Il contratto di lavoro può poi prevedere una sorta di accumulo di risorse da rendere al lavoratore al tempo della cessazione del rapporto di lavoro (es. il trattamento di fine rapporto italiano,). In questo modo, il vuoto lavorativo diviene maggiormente sostenibile per il lavoratore in cerca di nuovo impiego. Create le opportune tutele per i lavoratori e le loro famiglie e gli “ammortizzatori” (impropriamente definiti tali) per chi perde il lavoro, in un mercato del lavoro mobile si tratta anche di studiare forme di portabilità da occupazione a occupazione delle risorse accumulate negli istituti fondati su logiche di accumulo (es. il proprio fondo individuale per la non autosufficienza LTC al quale si dovesse contribuire dal primo giorno di lavoro al tempo della pensione).

Per quanto riguarda San Marino, questa ha già avviato questo percorso con l’introduzione di un Fondo Servizi Sociali, con alcuni delle funzioni sopra descritte. Lo stesso vale per il fondo nazionale di previdenza complementare di cui alla L. 191/2011 che dovrebbe fungere anche da fondo per le non autosufficienza, ma l’indicazione di legge non ha mai trovato attuazione in concreto”.

 

BENE GLI “OVER 50”, MALE I GIOVANI

Il mercato del lavoro sammarinese ha tratti peculiari differenti da quelli dei contesti europei. Lo si evince confrontando i dati dal 2008 al 2015, come ha fatto il tavolo tripartito, riferiti ai lavoratori dipendenti e indipendenti della Repubblica. Se il dato occupazionale dei giovani è preoccupante come in altri sistemi economici e sociali (basti pensare alla vicina Italia), ci sono comunque due dati positivi: il basso livello di disoccupazione degli over 50, al quale si unisce anche un buon livello occupazionale delle donne. “Confrontando i dati 2008 e 2015″, si legge nel report, ” il numero dei lavoratori dipendenti under 30 passa da 3.836 (2008) a 2.313 (2015); – 39,7% in termini percentuali a fronte di una contrazione dei lavoratori dipendenti del 8,8%. Il dato a giugno 2016 è più incoraggiante, attestandosi a 2.458 unità, comunque da confermarsi su base media annua”. Inoltre “il numero di lavoratrici dipendenti donne passa da 8.563 a 8.223; – 3,9% in termini percentuali a fronte di una contrazione del numero di lavoratori dipendenti del 8,8% negli stessi termini nello stesso periodo. Il dato a giugno 2016 è altrettanto incoraggiante, attestandosi a 8.377”. Infine che “il numero di lavoratori dipendenti over 50 passa da 3.233 a 4.676; +44,6% a fronte di una contrazione del numero di lavoratori dipendenti dell’8,8%”. Per cui, “dai dati si ricava come i giovani siano la coorte certamente più svantaggiata. Il progressivo invecchiamento della popolazione, nonché le politiche attuate in questi anni dal legislatore, così come il ruolo delle parti sociali, ha consentito di conservare un elevato grado di occupazione dei lavoratori over 50. Le dipendenti donne vedono una riduzione minore rispetto alla percentuale complessiva (-3,9% del numero di donne dipendenti rispetto al -8,8% dei lavoratori dipendenti totali)”. In pratica, “il dato non è totalmente negativo. La riduzione dell’occupazione data dalla crisi ha lasciato inalterato il rapporto tra donne occupate e totale dei lavoratori dipendenti. Ciò posto, il raggiungimento delle soglie di occupazione indicate a livello internazionale è ancora lontano da venire”.

In definitiva, “l’analisi lascia anche intendere un ridotto turn over tra lavoratori senior e junior, a danno di questi ultimi”. Ma soprattutto emerge che “i più colpiti dalla crisi occupazionale degli ultimi anni sono certamente i lavoratori “frontalieri” (da intendersi come coloro che non hanno la loro dimora abituale in Repubblica, ma qui si recano per prestare la loro attività lavorativa). Su 1736 posti lavoro totali persi, 1325 riguardano proprio questa coorte di lavoratori”.

E per i lavoratori indipendenti? “Confrontando i dati 2008 e 2015 il numero dei lavoratori indipendenti under 30 passa da 168 (2008) a 133 (2015); in termini percentuali – 20,8% rispetto alla riduzione totale del numero di lavoratori indipendenti del 10,1%”. Inoltre “il numero di lavoratrici indipendenti donne passa da 613 a 574; – 6,3% in termini percentuali a fronte di una contrazione del numero di lavoratori indipendenti del 10,1% nello stesso periodo”. Infine, “il numero di lavoratori indipendenti over 50 passa da 510 a 632; +23,9% in termini percentuali a fronte di una contrazione del numero di lavoratori indipendenti del 10,1% nello stesso periodo”. Due sono, quindi, le prime conclusioni che si possono svolgere: il trend demografico incide sensibilmente anche sull’invecchiamento della popolazione lavorativa dei lavoratori indipendenti; la riduzione contestuale tra lavoratori dipendenti e indipendenti lascia intendere come non ci siano stati fenomeni sensibili di travaso da una categoria all’altra, attraverso – ad esempio – la vestizione di rapporti di lavoro dipendente in “irregolari” rapporti di lavoro indipendente”.

 

COMPETENZE: LINGUA INGLESE E INFORMATICA

“Sarebbe bene intervenire anche in materia di istruzione primaria e secondaria e di corretto incrocio tra formazione e domanda di professionalità da parte del mercato”, si legge nel report del tavolo tripartito. “In primis, garantire che i futuri lavoratori – al tempo dell’avvio al lavoro – abbiano una buona conoscenza delle lingue straniere e abilità e agilità nell’utilizzo dello strumento telematico. Non è più possibile, né auspicabile, che esistano giovani europei non in condizione di esprimersi compiutamente in lingua straniera (sia essa l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo o il russo). La scuola obbligatoria di base deve necessariamente porsi l’obiettivo primario di formare i propri discenti alla capacità di esprimersi in una seconda lingua che un domani gli consenta di lavorare all’estero”, perché questo “vale sia per chi attenderà un lavoro manuale sia per chi dovrà ricoprire la carica di CEO per una grande impresa globale”,. Senza dimenticare che “la conoscenza delle lingue è fondamentale anche per consentire ai nostri lavoratori che rimarranno all’interno dei confini di interfacciarsi con le rappresentanze di imprese che vogliano operare sul nostro territorio o qualora le imprese sammarinesi vogliano estendere i propri commerci all’estero, anche solo operando tramite tecniche di comunicazione a distanza”, oltre che per “l’importanza economica del turismo”. Ma “l’utilizzo delle lingue fa il paio con la conoscenza dell’informatica. Qui il problema è, almeno per l’Europa, meno sentito. Salvo casi rari, quasi tutti i giovani lavoratori di domani sono in grado di utilizzare compiutamente un pc, un mac o navigare in rete. Ciò posto, anche questo secondo settore di studio non può e non deve essere trascurato”. Lingue straniere e informatica sono infatti “il passaporto per muoversi da qualsiasi parte del mondo intendano operare e per essere pienamente attrattivi per i datori di lavoro sammarinesi che operino – direttamente o indirettamente – con l’estero”.

Oltre queste due competenze specifiche, però, ne servono altre e, soprattutto, serve un sistema in grado di riconoscerle e renderle disponibili sul “mercato”. In questo caso, “il Gruppo di lavoro è complessivamente propenso all’idea – avanzata dalla CSU – di istituire un centro di verifica e accertamento (o, comunque di attribuirne la funzione ad altro ente esistente) delle c.d. competenze individuali dei lavoratori. Così da poter certificare e rendere quindi spendibile sul mercato del lavoro quelle competenze che il lavoratore abbia acquisito spontaneamente nel corso della vita lavorativa o prima di accedervi (es. corsi di lingue e formazioni professionalizzanti). Tutto questo, sempre al fine di garantire un migliore e un più utile incontro tra domanda e offerta di lavoro”.

 

SHARING ECONOMY: L’ESEMPIO UBER

Innovazione, in ambito lavorativo, è anche sharing economy. “Altrettanto affascinante”, si legge nel report, “è il tema relativo alle nuove professionalità che il mercato dei servizi (sospinto dalla semplicità delle comunicazioni digitali) sta creando e che mal si inquadrano nei vecchi rigidi istituti definitivo: datore, lavoratore dipendente o autonomo. Pur essendo poco o per nulla sviluppate nel mercato sammarinese, il pensiero va – ad esempio – ai conducenti Uber e a coloro che investono e operano a tempo parziale o pieno nel settore della sharing economy. Come definire e regolare correttamente l’operatività in tali settori? Almeno per quanto riguarda gli istituti della sicurezza sociale, della contribuzione pensionistica e fiscale e della tutela antinfortunistica, l’idea potrebbe essere quella di fare ricorso a soluzioni simili a quello che potremmo definire “autovoucher”, dove l’interessato segnali la propria occupazione, al superamento di determinate soglie, e contribuisca alla propria previdenza e tutela ISS, attraverso l’acquisto o l’accettazione di compensi tramite coupon. Idea certamente sperimentale, ma che potrebbe – se non altro – di garantire le giuste tutele a questi lavoratori in caso di malattia o infortunio e di contribuire utilmente al proprio futuro pensionistico.

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