Home FixingFixing Disoccupazione e mobilità: “Evitare che le tutele diventino un reddito”

Disoccupazione e mobilità: “Evitare che le tutele diventino un reddito”

da Redazione

Più spinta alla ricerca dell’occupazione: troppi in lista per oltre 12 mesi.

 

di Daniele Bartolucci

 

Gli ammortizzatori sociali, per definizione, sono interventi temporanei, atti a preservare la forza lavoro delle aziende in difficoltà in un dato momento o periodo, perché possano superarlo e riprendere l’attività a pieno ritmo in futuro. Questa definizione parte quindi da un presupposto: mantenere in attività le imprese perché queste possano mantenere i livelli di occupazione attuali e aumentarli. Per questo motivo la relazione del Gruppo Tecnico fa espressamente riferimento all’obiettivo di “finalizzare tutti gli interventi (ove possibile) alla riqualificazione professionale dell’individuo che versi in stato di disoccupazione e stimoli, in ogni modo e quanto prima, un suo rientro nel mercato del lavoro”. I dati infatti rilevano diverse dinamiche, alcune positive, altre negative. Mentre è evidente che negli ultimi anni sia aumentata la percentuale di lavoratori over 50 e di donne, questo grazie anche alle politiche attive introdotte per tempo, più difficoltoso è l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani, degli under 30. Questo per quanto riguarda gli indicatori classici, rilevabili in tutte le analisi statistiche riguardanti il mondo del lavoro. Quando però si entra nel campo delle politiche attive, il discorso cambia. E’ vero che San Marino sta investendo finalmente nella formazione professionale e nell’aggiornamento continuo delle competenze (anche ANIS contribuisce in questo senso con corsi di formazione per i disoccupati, assieme alla CSU), ma i numeri raccolti dal Gruppo Tecnico che si occupa della riforma degli ammortizzatori sociali palesano un fenomeno che, forse, pur essendo presente già da anni, diventa oggi un problema vero e proprio per via dei numeri, non più trascurabili. Stiamo parlando dei disoccupati, ma anche degli inoccupati. La distinzione tra disoccupati in senso stretto e “altri”, che ha generato più volte un misunderstanding dei dati forniti dall’UPECEDS, è solo una parte del problema. L’altra, più interessante ai fini di una più corretta gestione delle risorse disponibili, è quella data dalle liste disoccupati: pur essendo migliorato il rapporto tra iscritti e assunti entro i 50 giorni dalla fine della mobilità, “si scopre che un numero non trascurabile di lavoratori risulta ivi iscritto da lungo tempo”, si legge nella relazione: 681 su 1.319 nel 2014, 299 su 1.336 nel 2015. E di questi “una quota non trascurabile, pur se iscritta da lungo tempo, non ha mai ricevuto un avvio al lavoro o gli avvii al lavoro risultano in numero non superiore a 1 o 2 occasioni”. Il problema è dato dal contributo che comunque queste persone possono percepire e “dobbiamo quindi evitare che la permanenza in queste liste diventi un reddito vero e proprio”, anticipa il Segretario Iro Belluzzi. Per il Gruppo Tecnico, infatti, “devono essere ragionevolmente rivedute le regole di amministrazione, iscrizione e tenuta del registro stesso”, ricordando che attualmente sono iscritti anche coloro che non stanno cercando un lavoro. Come intervenire? Le ipotesi sono diverse, ma non possono prescindere dall’evitare “fenomeni antibeveridgiani di arrendevolezza (consapevole o meno) nella ricerca di una nuova occupazione”. Tradotto: riduzione progressiva dei benefici al decorrere del tempo, vincoli più stringenti alla formazione e sanzioni a chi rifiuta l’occasione di lavoro che si presenta.

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