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Il “prosciutto San Marino” che arriva dall’Australia

da Redazione

Oltre al cibo ci sono diversi siti dove vengono venduti oggetti con lo stemma della Repubblica. Prodotti di origine protetta, mancano leggi e accordi: il Titano ha le armi spuntate.

 

di Daniele Bartolucci

 

Dal nome all’indicazione geografica di produzione, fino allo stemma ufficiale della Repubblica: c’è tanto ‘San Marino’ nel mondo, di cui una gran parte non c’entra nulla con il Monte Titano, la sua storia e le sue imprese.

Il “Parmesan” utilizzato nelle ricette ufficiali di Master Chef Australia ha riacceso i riflettori sulla spinosa questione della contraffazione dei prodotti tipici, in questo caso dell’eccellenza enogastronomica che è, poi, la protagonista dell’Expo di Milano. Ma non è solo l’Italia ad aver messo nel mirino la terra dei canguri, perché anche San Marino potrebbe farlo a breve. Proprio dall’Australia, per la precisione da Wetherill Park (una piccola città nell’entroterra a pochi chilometri da Sidney), arriva infatti il “Prosciutto Crudo” della “San Marino Smallgoods”, fiorente attività avviata dal signor Tony Marino tra gli anni ’60 e ’70, dopo essere emigrato dall’Italia. E’ abbastanza chiaro che il nome dell’azienda richiami anche il nome del proprietario, che probabilmente – sul sito www.fmfinefoods.com.au non è specificato – conosceva l’antica Repubblica e l’ha utilizzata per dare un po’ di aulicità alla sua produzione. Non sembra infatti che il signor Marino sia emigrato proprio dal Monte Titano, né voglia puntare su questa origine personale, ma piuttosto all’origine del prodotto. Tanto è vero che il marchio di fabbrica è “the taste of Italy” (il sapore dell’Italia), rimarcato dal tricolore che fa da sfondo a tutti i prodotti della “San Marino Smallgoods”. Eppure, sulla confezione dei prodotti compare anche lo stemma ufficiale dell’antica Repubblica, forse perché anche in Australia – come in tanti altri Paesi – sanno che il consumatore identifica il prodotto italiano come superiore. Misteri del marketing. Restando nell’ambito commerciale, però, sarebbe consigliabile al signor Marino di non utilizzare più questa forma di pubblicità, perché lo stemma ufficiale della Repubblica, quale simbolo statuale, può essere usato solo dallo Stato e dai suoi rappresentanti diplomatici. La tutela dello stemma della Repubblica è storia recente (la Legge è del 5 dicembre 2011) ed è abbastanza chiara: “E’ illegittimo”, si legge all’art. 7, “l’uso a qualunque titolo dello stemma quando non sia debitamente autorizzato o quando sia atto a trarre in inganno circa la provenienza geografica o la nazionalità di soggetti economici e/o privati o quando sia posto in essere in forme tali da costituire atto di dispregio nei confronti della Repubblica e dei suoi simboli”. Insomma, il Signor Marino è sicuramente fuori dalla legge e se commercializzasse i suoi prodotti in territorio potrebbe rischiare le sanzioni previste, che vanno da 1.000 a 10.000 euro. Allo stesso modo, essendo lo stemma depositato presso il Wipo (a cui aderisce anche l’Australia), non potrebbe mai registrare validamente come marchio lo stemma ufficiale di San Marino. Ma come detto non è l’unico: basta andare sui siti commerciali più famosi, come Ali Baba o Aliexpress, per trovare centinaia di oggetti riportanti lo stemma di San Marino ma prodotti chissà dove (la maggior parte è comunque asiatica, cinese in particolare). Dalle bandiere biancoazzurre alle spillette, fino alle custodie per gli smatphone, c’è un po’ di tutto, anche gli spazi nei container o sugli aerei cargo per portare da qualsiasi posto nel mondo la merce a San Marino. Il problema è quindi serio e serve – così come l’Italia deve fare per tutelare il Parmigiano – un’azione più efficace a livello internazionale, anche perché gli accordi e le convenzioni ci sono e San Marino (e il suo stemma) merita rispetto. Così come i produttori sammarinesi che rispettano le leggi devono essere tutelati dall’arrivo – non sappiamo se ipotetico o già effettivo – di container strapieni di oggetti colorati di bianco e di azzurro con lo stemma della Repubblica di San Marino in primo piano. Ma non è solo lo stemma di San Marino, come detto, a venire utilizzato a sproposito – per il cui uso illegittimo lo Stato di San Marino potrebbe avviare un’azione civile di risarcimento per danno all’immagine – bensì anche l’indicazione geografica, contenuta nelle parole “di San Marino” che viene usata per ingannare il consumatore sulle caratteristiche del prodotto. Esistono diverse tutele a livello internazionale, prima fra tutte in ambito europeo la legislazione sulla IGP (Indicazione Geografica Protetta) gestita dall’Unione Europea, ma aperta anche alle merci provenienti da paesi terzi e l’Accordo di Lisbona del 1958 sulla protezione delle denominazioni di origine e sulla loro registrazione internazionale gestito dal WIPO di Ginevra. In entrambi i sistemi sono previsti meccanismi di registrazione internazionale delle denominazioni di origine dei prodotti sorretti da una legislazione nazionale (il recente caso dell’Igp concesso alla ‘piadina romagnola’ è emblematico), che in questo caso manca a San Marino: una carenza legislativa che espone i prodotti sammarinesi (e soprattutto i produttori) al rischio concreto di essere disarmati in caso di contraffazioni del prodotto e quindi pone in seria difficoltà nei confronti dei competitor internazionali che, come il prosciutto australiano in oggetto, sfruttano il nome, lo stemma e probabilmente anche l’indicazione geografica per dare un valore aggiunto alla loro produzione. Ma la mancanza di una legislazione interna, unita alla mancata ratifica delle convenzioni internazionali rende deboli i prodotti nazionali anche nei confronti del mercato, perché non essere riconosciuti (dalla legge nazionale ai trattati internazionali…) è un elemento negativo in un contesto, quello dei prodotti tipici così come quello della manifattura artigianale e industriale, dove la Repubblica di San Marino (quella vera e non solo sulla carta o nelle pubblicità) può invece proporre delle vere e proprie eccellenze.

 

REVOCATE 13 LICENZE “CINESI”

Il ‘falso Made in Italy’ è un problema annoso che, stando ad alcune indiscrezioni dei mesi scorsi, avrebbe riguardato anche San Marino. “Dopo aver sentito l’Ufficio Centrale di Collegamento e l’Ufficio di Controllo e Vigilanza”, si legge nella risposta del Segretario all’Industria, all’interpellanza presentata a febbraio sul tema da Rete, “non risultano elementi riconducibili ai fatti riportati dalla stampa”. Ma “dal 2009 ad oggi l’Ufficio di Controllo e Vigilanza sulle attività economiche ha svolto attività su alcuni operatori sammarinesi che hanno intrattenuto rapporti commerciali con la Cina”. “Tale operazione ha prodotto l’apertura di 186 posizioni” e “di alcune posizioni l’Ufficio ha relazionato alla Segreteria di Stato”. Di queste società “13 sono state revocate dal Congresso di Stato”. Il Segretario Arzilli ricorda infine che è in ultimazione la relazione di cui all’art. 27 della Legge 40/2014 “Disciplina delle licenze per l’esercizio delle attività industriali, di servizio, artigianali e commerciali”.

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