Home FixingFixing Il “falso storico” del “fine che giustifica i mezzi”

Il “falso storico” del “fine che giustifica i mezzi”

da Redazione

Niccolò Machiavelli, che salì a San Marino qualche anno prima della pubblicazione del “Principe”, lo disse né scrisse mai questa celebrissima frase. Il vero elemento innovativo del suo pensiero va ricondotto al dualismo tra virtù e fortuna: per essere vincenti, ieri come oggi, servono entrambi.

 

“Elementare, Watson”? Sir Conan Doyle non l’ha mai scritto. I casi catalogati sotto la voce “falsi storici” sono molteplici. E uno – molto celebre – riguarda anche Machiavalli: “Il fine giustifica i mezzi”.

Questo aforisma difatti non trova riscontro né nel “Il Principe” né in altre opere dell’autore. Per raggiungere il fine di conservare e potenziare lo Stato, viene popolarmente e speculativamente attribuita allo scrittore questa massima, secondo la quale qualsiasi azione del Principe sarebbe giustificata, anche se in contrasto con le leggi della morale.

Machiavelli – che nel 1506 fece visita a San Marino – qualcosa scrive, sia ben chiaro: un passaggio della sua opera più famosa chiarisce che “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”.

Gli studiosi hanno approfondito il quesito, e chiamano in causa Ovidio che nell’Ars amatoria scrive “exitus acta probat” (“Il risultato è la verifica delle azioni”).

Dissipato il dubbio, Machiavelli va ricordato soprattutto per una profonda (e quanto mai attuale) analisi sul dualismo tra virtù e fortuna. Nel “De Principatibus”, esattamente al capitolo XXV, l’autore sviluppa il rapporto tra queste due attitudini. E’ un punto cruciale della sua tesi: quanto la fortuna può condizionare le opere dell’uomo? Per il fiorentino la fortuna condiziona solamente per il 50 per cento delle scelte. L’altra metà è la diretta manifestazione delle virtù dell’uomo. Machiavelli prosegue poi la riflessione paragonando la fortuna a un fiume, talvolta calmo, talvolta dirompente. Ed è quando la furia del fiume di fa più forte che questo inonda i territori circostanti, distrugge gli alberi e gli edifici, ciascuno fugge dinnanzi alla sua ira senza poter opporre resistenza. Allo stesso modo la fortuna se avversa spazza via tutto ciò che c’è di buono e che con fatica si è costruito.

Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: in lui viene vista come l’insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni.

La virtù è quindi un insieme di energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche efficace ed energico.

La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se non trova l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne. L’occasione, tuttavia, è intesa da Machiavelli in modo peculiare: è quella parte della fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati (è un dato di fatto, un evento), un esempio di occasione è il fatto che bisogna allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere pronti ad un loro eventuale attacco.

Di certo Machiavelli non ha scoperto l’acqua calda, anzi. Innovativa è la sua visione del dualismo, ma non il concetto. Già Angelo Poliziano (1454-1494), ne “Le stanze della giostra”, scriveva: “Dianzi eri d’una fera cacciatore / più bella fera or t’ha ne’ lacci involto dianzi eri tuo, or se’ fatto d’Amore, sei or legato, e dianzi eri disciolto. Dov’è tuo libertà, dov’è ‘l tuo core? Amore e una donna te l’ha tolto. Ahi, come poco a sé creder uom degge! ch’a virtute e fortuna Amor pon legge”.

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