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La scuola Holden a San Marino, “Il cacciavite” di Erika Agatiello

da Redazione

“A cosa le serve?” chiese Stella nel suo perfetto italiano; aveva scelto un lei reverenziale, ma con il tono di quando ci si rivolge ad un bambino.

 

 di Erika Agatiello

 

 “Cus possa avè un cacciavidi?”

“A cosa le serve?” chiese Stella nel suo perfetto italiano; aveva scelto un lei reverenziale, ma con il tono di quando ci si rivolge ad un bambino.

Marino avrebbe voluto semplicemente dire: “A cosa vuole che mi serva un cacciavite, signorina? A svitare, no?” Invece i suoi 85 anni e 3 mesi lo costrinsero a prendere in considerazione il gap generazionale che lo separava dall’assistente, intenta a pulirgli la bocca con un cotton fioc: “Vede ‘ste sbarre? Se io ho d’andè te bagn, cum ca fach a scenda? Ho bisogno del cacciavite, no?”

Stella sapeva bene che non vale la pena contraddire i pazienti, sono anziani e bisogna essere dolci con loro, e poi a che pro ricordargli che aveva il catetere e non c’era nessuna necessità di alzarsi? Tanto più che, se anche fosse riuscito a superare le barriere strutturali del letto, mai e poi mai avrebbe potuto evitare quelle fisiche.

“Adesso sento con la caposala, eh? Poi le dico”.

Entrambi sapevano che lui se ne sarebbe dimenticato di lì a poco.

Marino era sempre stato un muratore e non riusciva a fare a meno di esserlo anche ora che non poteva più muoversi dal letto: distingueva le pareti di cartongesso da quelle portanti, proponeva modifiche strutturali ed estetiche a infermieri e dottori, chiamava la tazza del tè del pomeriggio secchia e non si capacitava del fatto che l’armadio non appoggiasse bene da entrambi i lati; un giorno aveva chiesto spiegazioni al primario in persona, durante la visita del mattino, ma lui non aveva saputo dirgli quale ditta avesse fatto quel muro così storto.

Marino era sempre stato un muratore ma le uniche pareti che aveva costruito erano quelle di casa sua.

Da giovane viveva a Valdragone vicino alla fonte, solo con sua mamma, perché il padre, che gli aveva insegnato il mestiere, era morto per una distorsione alla caviglia e una fasciatura troppo stretta, lasciando a lui l’eredità del capofamiglia.

A 35 anni non si era ancora sposato, e la sera, nelle stalle, fra i telai e le mucche, i cantastorie raccontavano di quel giorno in cui La Mariola, la figlia piccola di Marnon-sforna-pagnoti, il fornaio de’ Borg, aveva assistito alla scena in cui il padre minacciava col fucile il ragazzo di cui si era innamorata. Del resto come avrebbe fatto a mantenerla quell’uomo la cui unica fonte di reddito erano le galline e le uova che la madre vendeva? La Mariola si era sposata l’anno dopo con Pippo, che possedeva delle vigne e una casa di proprietà, e Marino era così rimasto per tutti un giuvni antig e lo era stato fino al giorno imprecisato in cui era diventato un pori vech.

Marino era “E Matt”, lo scemo del paese, forse per via di quella strana abitudine di firmare cambiando l’ultima lettera del suo cognome, Santi, in una o; il certificato di morte della madre del 5 agosto 1963, la compravendita della casa di Valdragone dell’anno dopo e le lettere scritte alla Mariola e custodite in una cassetta di legno sotto al letto, terminavano sempre con uno scarabocchio obliquo ma leggibile:


l’erede

Santo Marino;


in fede

Santo Marino;


con amore

Santo Marino.


Nessuno si era mai azzardato a contraddirlo e così Marino si era abituato a quella condizione che è dei bambini, dei vecchi e dei matti. Non un avvocato, non un dottore o un insegnante gli aveva mai richiesto di cambiare la sua firma e mai nessuno gli aveva detto “No Marino, guarda che ti sbagli”; erano tutti dei “Sì Marino, ci vediamo questa sera”, “Sì Marino, è meglio una tinta color ocra”.

Naturalmente Marino sapeva che la pareti della canonica sarebbero state inondate da un bianco – luminoso – ascesa – al cielo e non dall’ocra proposto da lui, ma gli bastava la libertà del poter dire, senza il vincolo del ricevere.

Marino aveva l’abitudine di presentarsi la mattina presto nei cantieri della Repubblica, ovunque fossero, a presenziare al miracolo della costruzione. Perché per lui era veramente un miracolo constatare come giorno dopo giorno, semplici mattoni potessero diventare colonne, pareti, una casa o una chiesa.

Un giorno, come tutti gli altri degli ultimi due mesi, Marino accese il cero sotto la fotografia di sua mamma, si sedette sul vecchio inginocchiatoio di legno che il parroco di Borgo gli aveva permesso di portare a casa e disse tre Ave Maria con la testa china; quando si rialzò spense la candela, si vestì da cantiere e alle sette era già in attesa che i lavori alla casa di Fredo e della Pia iniziassero. Gli uomini arrivarono alla spicciolata e lo salutarono, aspettandosi di trovarlo lì allo stesso modo in cui si aspettavano quello che avrebbe detto loro: “Secondo me non regge”.

Ne era convintissimo, quella casa mai e poi mai sarebbe stata su: è troppo vicino alla galleria, diceva, e lo ripeteva dacché il cantiere era stato avviato.

“Sì, Marino”, era la risposta che si era sentito dire il giorno di maggio in cui la casa era finita.

 

Quarant’anni dopo, Stella gli stava rivolgendo le stesse parole, mentre lui le affidava una lettera con le sue volontà.

Nell’ultima settimana aveva scelto accuratamente anche la foto che avrebbe dovuto essere apposta sulla sua lapide, senza lasciare niente al caso, quasi avesse paura che nell’aldilà ci fosse la possibilità di pentirsene: si immaginava sull’alto di una nuvola a guardare la foto della sua lapide e rivolgere a se stesso qualche improperio perché avrebbe pur fatto meglio a scegliere l’altra, no? Lascia pure che era di una decina d’anni più giovane, ma almeno quel cappello nero a tese perfette gli avrebbe sicuramente reso maggior giustizia.

Stella, spossata dalle 10 ore di lavoro continuato, e affamata per aver saltato la pausa pranzo, si era seduta nella saletta riservata al solo personale di servizio e aveva appoggiato i piedi sul tavolino, prima di sfilare dalla tasca la lettera dell’ottantacinquenne della stanza numero 3.

Lesse distrattamente.

Questa lettera contiene le mie ultime volontà. È mio desiderio che venga apposta sulla mia lapide la foto che trova nella busta e che vengano scritte queste precise parole:

 

Santo Marino,

amato e ammirato da tutti sulla terra

e finalmente unito nei cieli alla moglie Mariola,

riposa ora in pace nella casa

che ha costruito pazientemente per tutta la vita.

 

Stella richiuse il foglio stando attenta a seguire le pieghe della carta, le sembrava che l’anziano signore della 3 facesse Santi di cognome e non Santo e che una moglie non ce l’avesse mai avuta. Cose da vecchi pensò, ma si fece scappare un sorriso perché non riusciva a fare a meno di pensare al Post Scriptum; passati due mesi dall’episodio quell’uomo, che dimentica sempre tutto, aveva concluso:

Peccato per quel cacciavite.

Marino morì il 3 settembre del duemiladodici a Valdragone, lo stesso giorno in cui la casa di Fredo e della Pia crollò: era troppo vicino alla galleria.

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