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Ivano Marescotti: da “La Fondazione” di Baldini sino alle radici del dialetto romagnolo

da Redazione

C’è un asse bizzarro e meraviglioso, che rassomiglia un po’ ai viaggi di Paolo Rumiz, che raccorda la Romagna – terrigna e vera, fatta di parole e di qualche scrittura – al basso Piemonte. Intervista all’artista di Bagnacavallo e a Fabio Bruschi.

Marescotti Ivano stampa

 

 

di Alessandro Carli

 

Al crocevia di parole per la scena, Fabio Bruschi, a lungo direttore del Premio Riccione per il Teatro, si siede tra gli spazi delle vocali e delle consonanti.

“Ivano Marescotti è uno che ha avuto del coraggio: nel 1981, alla bella età di 35 anni (è del 1946, baby-boomer e leva calcistica del ‘68 anche lui), geometra col posto fisso al Comune di Ravenna, Ufficio urbanistica/PRG, si licenzia per seguire la sua ‘vocazione teatrale’. Non viene dalle ‘dialettali’, vuole il grande teatro; non gli piace ‘la tradizione sotto-culturale delle commediole in dialetto’. Ivano si impegna, studia (anche troppo: ogni tanto gli scappa qualche fonema con la voce ‘impostata’, da attorone d’una volta). Io lo ricordo al Novelli di Rimini, in una produzione importante, La Signorina Giulia di Strindberg e nell’Amleto di Cecchi. Fu lavorando nel teatro d’arte che, nella stagione 1989/90, in quel memorabile, corrosivo, spudorato Amleto, di e con Carlo Cecchi, Marescotti incontrò Valerio Binasco, allora giovane attore, poi regista intelligente e sensibile, gradito a pubblico e critica, che lo ha diretto in questa produzione della Fondazione di Lello Baldini, dove Ivano ritrova ‘sia lo stile graffiante e mosso di Cecchi che l’umanità e la dolcezza di Binasco’. Ivano a Riccione mi ha raccontato una bella storia su Baldini e Ravenna: il Comune, nel 2003, per gli 80 anni di Lello, organizzò a Ravenna, città massimamente teatrale, una grande iniziativa, Baldiniana, con uno spettacolo-antologia delle poesie di Lello a cura di Ivano, Il silenzio anatomico; e poi un libro, la lectio magistralis e il conferimento della cittadinanza onoraria, con prolusione di Franco Quadri. Io ricordo ancora con commozione e ammirazione che, per i funerali di Baldini alla Collegiata di Santarcangelo, troppo pochi anni dopo, c’era in chiesa il grande gonfalone di Ravenna con i vigili in alta uniforme…sono cose civili, dignitose, che fanno piacere anche a chi, come me, non è né di Ravenna né di Santarcangelo: sono cose che, dove sei, sei, ti fanno sentire a casa. Poi mi ha detto che nella loro Fondazione l’italiano lo hanno allungato… Mi piace sottolineare che, a proposito di italiano e dialetto, Baldini ci ha preso anche lì, o almeno io lo spero fortemente. Lello parla, per oggi e in prospettiva, di convivenza tra l’italiano e il dialetto. Non dice, come tanti, che il dialetto sparirà dalla lingua di tutti i giorni e rimarrà solo come lingua d’arte per il teatro e la poesia: ‘io credo che la convivenza pacifica sarebbe, per l’annosa questione ‘lingua e dialetto’, la soluzione ideale”.


Lei ha avuto il privilegio di vedere Baldini recitare La Fondazione al Teatro del Mare di Riccione.

 

“Per la Stagione del Premio Riccione, nell’aprile del 2004; poi, quasi dieci anni dopo, sempre lì, la versione di Marescotti e Binasco… impressioni? Più di altre volte il passaggio dal dialetto di Santarcangelo a quello di Vilanova ad Bagnacaval, coincide con un cambio drammaturgico, uno scavo che mette in luce un personaggio almeno parzialmente – e del tutto legittimamente – diverso da quello interpretato da Baldini: nemmeno un ultimo, ma un penultimo, come dice Marescotti. Il protagonista di Baldini parla santarcangiolese, e qui cito Pedretti: ‘Soprattutto il ritmo mi affascinava, questo ritmo che sentivo molto fisiologico, le idee che si accomodavano in questo ritmo’ e ancora ‘il dialetto del mio paese (…) ha un’eleganza ritmica che piega il lessico e lo costringe al rigore del suo spartito’ , citato da Manuela Ricci, Al vousi… de tèmp. Sulla poesia in dialetto di Nino Pedretti. Il ravennate di Villanova è più lento, trascinato, ha tinteggiature più cupe, esprime benissimo il personaggio, il character prescelto, il penultimo, ma… lasciami essere settario: sorretto da un ritmo che al Baldini interprete di se stesso riusciva con facilità mozartiana, il suo matto ha un’energia e a tratti una leggerezza che ti innamorano”.

 

Ad imbuto poi, gli arti – voce e corpo di Ivano Marescotti, sensibilità ed occhio di Valerio Binasco – come una stretta di mano identitaria con il passato, ma senza nostalgia.


Ivano Marescotti, qual è il rapporto tra parola e gesto nella Fondazione? Ci sono novità rispetto alle sue esperienze precedenti? La parola in dialetto la sente come una parola già in qualche modo ‘fisica’?

 

“Dopo avere visionato le registrazioni dei precedenti monologhi di Baldini che misi in scena con diversi registi, Binasco mi disse: ‘Tu non hai bisogno di me, questo personaggio ce l’hai già e farai un lavoro meraviglioso, ma se ci stai, se abbiamo coraggio, faremo una cosa diversa’. Io non vedevo l’ora. Non mi interessava replicare esperienze già vissute e sviscerate. Avevo bisogno di sangue nuovo, di andare oltre, scoprire un Baldini diverso. I suoi personaggi sono logorroici e quando li legge lui, Baldini, è insuperabile nella interpretazione e nella logorrea come un fiume che travolge senza soste e pause psicologiche. Con Binasco abbiamo certo fatto parlare il personaggio senza interruzione sì, ma dentro di sé, facendo emergere la voce nelle espressività emergenti, incontenibili dentro di sé, fuori dall’acqua, la punta dell’iceberg. I movimenti, prima enfatizzati e proiettati nello spazio a sottolineare e ampliare una espressione, una emozione, ora sono frenati come a trattenere la rabbia, a contrastare l’emozione, l’emotività che invece si riversa nella voce e nella parola che incarna la fisicità di un corpo imploso. La parola è un evento, un contenitore fisico, sonoro e prescinde dal suo significato testuale. Certo che così, ogni singolo gesto minimo di un dito solo è una esplosione di espressività. E rivela la contradditorietà del personaggio, la sua complessità, la sua tragedia. Non c’è nulla di costruito fisicamente, accademicamente, ogni replica è un viaggio nuovo, inedito, una prima volta. E io, che non sopporto di andare oltre le 15-20 repliche, mi metto lì disposto a sorprendermi, come il pubblico, al viaggio di questo personaggio. Anche quando la replica fosse identica alla precedente. Un miracolo che mi riconcilia col teatro (che da 10 anni avevo abbandonato, ad esclusione delle mie serate di recital vari). E questo è dovuto soprattutto al regista. L’incontro con Binasco è per me decisivo. Trovo in lui, nel suo modo di concepire il teatro e di lavorare, una consonanza di valori, intenti e pratica mai trovati in nessuno dei registi con cui ho lavorato finora in teatro”.


Lei è già andato in scena con monologhi teatrali di Baldini diretto da registi importanti, come Binasco ora, anche in occasioni precedenti: in “Zitti tutti”(1993) lei era diretto da Marco Martinelli, con un dialetto concitato, una sorta di dialetto-gramelot; poi con Giorgio Gallione “Carta canta” (1998) Qual è la differenza nell’uso del dialetto tra questi due antecedenti e quello de “La Fondazione”?

 

“Zitti tutti era dialetto al 100% ed ero consapevole che nessuno fuori della Romagna ravennate avrebbe capito nulla. Mi divertivo inoltre anche nel ravennate a parlare così veloce in certi punti del testo (scelta di ritmo espressivo) che neppure i miei conterranei capivano tutto. Gramelot, appunto. Ciò che ne scaturiva era il teatro. Dove la parola era meno importante della esperienza di un personaggio nella sua fisicità espressiva (nel corpo e nella voce anziché nella parola) offerta ad un pubblico testimone di una tragedia in atto. L’essenza del teatro. E con il dialetto buttato là ostentatamente ciò era automatico. Ricordo quando in Sardegna feci una sola replica davanti ad un pubblico immoto, fermo e serio, senza un sorriso (Baldini come si sa è un tragico ma che fa ridere, un tragicomico). Il giorno dopo il critico della ‘Nuova Sardegna’ scrisse che non aveva capito una parola ma che lo spettacolo era tragico e bellissimo. La Fondazione è scritta per il 70% in dialetto e il 30% in italiano. Baldini mi spiegò che oggi la gente nata in dialetto parla così: traduce dal dialetto perché ormai educata dalla tv e altri media, occorre farsi capire da gente non più locale, immigrati, giovani locali ma che il dialetto faticano ormai anche a capirlo. E questo avviene ormai anche nei bar e nelle osterie. Non è già un nuovo linguaggio ma è un nuovo modo di esprimersi, di comunicare. Con questa logica noi abbiamo rovesciato i termini: è un testo in lingua italiana con varie espressioni in dialetto. Ma quell’italiano è un italiano pensato in dialetto. Perché, come diceva Baldini ‘ci sono cose che succedono in dialetto’ anche quando si esprimono in lingua”.

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