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San Marino, non idoneità alla mansione: ingiustizia sociale alla rovescia

da Redazione

Il tema è delicato. Di fatto stiamo parlando di una impossibilità per il lavoratore, sopraggiunta nel tempo, a svolgere il proprio compito contrattualmente assegnato.

 

di Loris Pironi

 

Con la legge n. 73 del 31 marzo 2010 (poi modificata in parte dal D.D. n. 156 del 2011) si è tentato di porre rimedio ad una problematica che fino a quel momento discriminava una specifica casistica dei lavoratori. Quelli per i quali, a un certo momento della propria attività, sorgono elementi che li portano a non essere più idonei per lo svolgimento della propria mansione.

Oggi che i tempi sono maturi per comprendere l’efficacia del provvedimento e i suoi eventuali limiti, ci si rende conto che la normativa lascia il campo a dubbi interpretativi che addirittura finiscono per ribaltare l’intera questione, creando una sorta di “discriminazione al contrario”. Il tutto a gravare sul sistema degli ammortizzatori sociali, già duramente provati dalla perdurante crisi.

Il tema della non idoneità alla mansione è delicato. Di fatto stiamo parlando di una impossibilità per il lavoratore, sopraggiunta nel tempo, a svolgere il proprio compito contrattualmente assegnato. Si può trattare ad esempio di un magazziniere che ha problemi alla schiena e non può più sollevare pesi; non necessariamente però parliamo di una malattia: la non idoneità alla specifica mansione, ad esempio, può essere provocata un’allergia a una determinata sostanza.

Ma è la stessa definizione di non idoneità alla mansione che sfugge in qualche modo ad un inquadramento chiaro e incontrovertibile. In termini generali la differenza con la malattia è che questa viene considerata una situazione d’inabilita temporanea, la non idoneità invece in linea teorica rappresenta una situazione definitiva. A scanso di equivoci dobbiamo inoltre spiegare anche che la situazione di non idoneità è da considerarsi una tutela per il lavoratore (volta ad evitare l’aggravarsi dei problemi fisici) tanto quanto per l’azienda (a cui non può essere imputato l’eventuale aggravarsi delle condizioni di salute del proprio dipendente). Un’altra precisazione quasi superflua: si ricade nella fattispecie dell’inidoneità di mansione qualora sia impossibile, per l’azienda, reimpiegare il lavoratore non idoneo in qualsiasi altra mansione senza modificare l’assetto organizzativo.


Cosa è cambiato con la 73/2010

 

Prima dell’entrata in vigore della 73/2010, il testo di riferimento era la legge n. 34 del lontano 1972, che tra le altre cose stabiliva in 365 giorni continuativi il periodo di comporto, quello cioè durante il quale il lavoratore ha diritto al mantenimento del proprio posto di lavoro. Questa tutela non era tuttavia estesa ai lavoratori non idonei. Con la legge n. 73/2010, i cui primi effetti si cominciano a vedere soltanto oggi, si è deciso di intervenire per andare incontro alle esigenze del lavoratore che, per problemi fisici, si trovava a non poter svolgere regolarmente la propria mansione quotidiana senza aver alcuna forma di tutela retributiva e di continuità di rapporto.

Come si è deciso di intervenire? Dando la possibilità al lavoratore inidoneo (la certificazione deve essere stilata dal medico del lavoro aziendale, su specifica richiesta del lavoratore stesso) di godere – così come il malato – di un massimo di 365 giorni di inabilità temporanea continuativa. Come già detto, dopo aver fatto il possibile per trovare in azienda una nuova collocazione per il dipendente, questi ha oggi diritto a percepire l’indennità economica per inabilità temporanea (lo stesso della malattia, pari all’86% della retribuzione), per 365 giorni. Durante i quali, appunto, il comporto è garantito.

Al termine di questa fase i medici del Dipartimento Prevenzione dell’Uoc Sicurezza sul Lavoro dell’ISS saranno chiamati a confermare oppure a revocare lo stato di inabilità a svolgere le mansioni contrattualmente affidate.

Va ricordato inoltre che a differenza del malato “ordinario”, che è sottoposto agli accertamenti sanitari domiciliari, il lavoratore inidoneo dovrà essere sottoposto ad un semplice controllo medico trimestrale.


Fixing solleva dubbi interpretativi

 

È a questo punto che subentrano i dubbi interpretativi. Una volta trascorso l’anno di “aiuto”, qualora non sia possibile il reintegro alla mansione originaria, la ratio della norma teoricamente dovrebbe prevedere la possibilità per l’azienda di trovare un sostituto e colmare così il vuoto in organico. Invece c’è una seconda corrente di pensiero, chiamiamola così, che sta prendendo corpo e che vorrebbe concedere al lavoratore inidoneo, trascorso un intero anno di inattività, il ricorso ad ulteriori ammortizzatori sociali. Dunque prima la malattia, poi l’azienda dovrebbe attivare una procedura di licenziamento collettivo (per 1 solo dipendente…) da cui il lavoratore accede ai benefici della mobilità (12 mesi) e quindi la disoccupazione (ulteriori 12): in totale 32 mesi di assistenza dello Stato per una persona che, se opportunamente guidata ad un altro lavoro, potrebbe trovare un’altra occupazione.

È qui che subentra la nostra “lettura”, che ci pare palesemente una ingiustizia sociale al contrario: è possibile che al lavoratore inidoneo – che ripetiamo, potrebbe anche non essere malato – venga garantito un trattamento migliore di tutti gli altri lavoratori? Con questa questione si rischia di creare non solo un pericoloso precedente, ma anche un motivo di tensione all’interno delle aziende.

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