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I pensionati aumentano ancora, i contributi non bastano

da Redazione

Il rapporto di due lavoratori per ogni pensione erogata è troppo basso, la riforma è sempre più urgente. Soluzioni cercansi: più occupati darebbero respiro ma non basterebbe sul lungo periodo.

 

di Daniele Bartolucci

 

Il rapporto tra lavoratori occupati e pensionati è prossimo alla soglia di 2 a 1. Questo dato, più di tanti altri, qualifica l’attuale insostenibilità del primo pilastro del sistema pensionistico sammarinese, che da tempo necessita di una revisione nell’impianto e nell’impatto sociale. Anche per questo si è messo nero su bianco, nella finanziaria 2016, l’impegno del Governo a presentare una riforma in tal senso, visto che quando furono introdotte le modifiche nel 2005, il rapporto tra occupati e pensionati era ancora di 3 a 1. Probabilmente si fece affidamento su questo dato e sul trend estremamente positivo dell’economia, quando si decise – in pratica – di favorire chi era o stava entrando nell’età pensionabile al tempo, scaricando sulla generazione successiva l’onere di sostenere quelle pensioni. Di fatto, anche chi aveva contribuito poco si è guadagnato una pensione di tutto rispetto, cosa che la generazione successiva e quelle future non potranno fare così facilmente. Il tasso di sostituzione tra stipendio e pensione, infatti, da un 90-95% di dieci anni fa si è ridotto ad un più “popolare” 60-65% per chi andrà in pensione nei prossimi anni, comunque ad un’età molto più avanzata dei loro predecessori, visto che il minimo è stato spostato in avanti, fino ai 66 anni nel 2021. La previsione fatta al tempo, che è poi anche la soluzione più semplice anche oggi, era quella di un ricambio costante e positivo tra forza lavoro e nuovi pensionati, ma negli ultimi dieci anni i lavoratori occupati sono diminuiti repentinamente e ogni anno, stante anche l’innalzata aspettativa di vita, aumentano i pensionati nell’ordine di circa 300 unità l’anno.

 

RENDIMENTO PIÙ ALTO DA FONDO E FONDISS

Il Governo ha da tempo incaricato un pool di esperti in materia per fotografare l’attuale sistema e individuare criticità strutturali. Per i tecnici l’ingente “riserva tecnica” accumulata negli anni dal Fondo Pensioni (che arriverà a sfiorare i 400 milioni di euro), rischia di scomparire nei prossimi anni, azzerandosi già tra meno di 20 anni, per cui un’oculata gestione di questo patrimonio è il primo passo della riforma, unito alla gestione sempre più performante del Fondiss (pensione integrativa obbligatoria), che deve ricercare quel rendimento aggiuntivo attuando una vera e sana diversificazione degli investimenti (che non significa buttare soldi in strumenti altamente rischiosi), soprattutto alla luce del fatto che oggi quasi l’intero patrimonio è “parcheggiato” come liquidità presso le banche sammarinesi, accentrando in pratica – questo sì che è un errore da correggere – tutto il rischio in un unico strumento di investimento. Stessa cosa per il patrimonio milionario del Fondo Pensioni: per entrambi i fondi, la ricerca di un rendimento che li renda sostenibili è quindi inderogabile.

 

SERVONO PIÙ CONTRIBUTI DAI LAVORATORI

Secondo i dati di bilancio, che collimano con quelli elaborati anche dai tecnici esperti incaricati dal Governo, già oggi vengono erogate più pensioni di quanto il Fondo incassi dai contribuenti. Questo saldo negativo era già di 10 milioni di euro l’anno scorso e, stante l’attuale rapporto lavoratori/pensionati, sicuramente può essere solo peggiorato. Se la soluzione più rapida è comunque quella di aumentare l’occupazione (di conseguenza si allargherebbe la base contributiva), di fatto si sposterebbe solo il problema, perché in futuro, comunque, ci sarebbero più pensionati e si tornerebbe alla situazione attuale, visto che le dimensioni di San Marino non permettono di aumentare la forza lavoro all’infinito. Certamente, però, riassorbire i 1.500 disoccupati, già oggi darebbe una spinta al Fondo Pensioni, ed è un obiettivo alla portata del sistema sammarinese, visto che ancora oggi ci sono oltre 5 mila frontalieri. Una soluzione alternativa è quella di metter mano alle pensioni già erogate, ricontrattando quelli che notoriamente sono definiti “diritti acquisiti”, in funzione di un maggiore equilibrio tra chi percepisce una pensione “alta” (i padri) e chi la percepirà molto più bassa e lavorando di più (i figli). L’altra soluzione, da valutare attentamente, è quella di aumentare i contributi a carico dei lavoratori, tenuto conto che negli ultimi decenni il peso maggiore della contribuzione è stato posto soprattutto a carico dei datori di lavoro (facendo perdere un po’ di competitività visto che si è aumentato il costo del lavoro). Un ritocco alle aliquote andrebbe comunque ipotizzato in senso generale, ricomprendendo anche quelle del Fondiss, che andrà a regime con un 4% della retribuzione lorda (metà a carico del lavoratore, metà a carico dell’azienda), forse troppo poco per rendere efficiente il fondo stesso.

 

PENSIONATI/LAVORATORI: QUESTIONE DA RISOLVERE

Attualmente è vietato lavorare se pensionati, ma tale vincolo risulta anacronistico nel momento in cui l’aspettativa di vita aumenta di anno in anno e a 60 anni non ci si senta così “anziani” da abbandonare il lavoro o, come avviene spesso, la propria azienda. In questo senso, di libera scelta e di opportunità, si potrebbe prevedere una maggiore flessibilità per l’uscita dal lavoro, permettendo – come avviene in tanti Paesi – di continuare a lavorare rinunciando alla pensione o a una parte di essa, oppure continuando a versare contributi. Una soluzione va ricercata senza meno, soprattutto alla luce dei dati dell’aspettativa di vita che di fatto posticipano – almeno in teoria – l’uscita dal mondo del lavoro.

Per fare un esempio, in Italia dopo le grandi riforme Amato del 1992, Dini nel 1995 e Fornero nel 2012, il Presidente dell’Inps, Boeri, ha avanzata diverse proposte al Governo per ridurre il “peso” dei nuovi pensionati. Proposte bocciate, va detto, anche perché nel frattempo il Ministro del Lavoro Poletti ha fatto le sue controproposte, a partire da un nuovo incentivo, per cui il signor Rossi che sta per andare in pensione sceglie di andarci un po’ più tardi trasformando il proprio contratto da full a part time, mantenendo comunque una busta paga più alta dell’eventuale pensione, e scaricando il datore di lavoro di una parte dei contributi da versare, abbassando in pratica il proprio “costo” di dipendente. In parallelo, l’azienda userà questo bonus per assumere un giovane con un altro part time, che in futuro prenderà il posto del signor Rossi. E’ solo un’ipotesi, per giunta in un sistema ormai totalmente contributivo come quello italiano, ma anche a San Marino sarebbe opportuno studiare queste possibilità prima che non ci sia più tempo. Inoltre, rimanendo in tema di anziani, il sistema sammarinese non prevede ancora niente per l’assistenza (se non quella pubblica), mentre i tecnici esperti consigliano di introdurre anche questa voce tra gli utilizzi dei contributi previdenziali, stante il fatto che in futuro sarà sempre più impellente il bisogno della popolazione anziana di avere un “aiuto”, sia che esso si risolva in un accompagno che in una badante o la retta di una struttura atta ad ospitarli. In ogni caso sono spese che, spesso, superano l’assegno della pensione e questo può creare (e in parte già oggi li crea) disagi enormi per le famiglie, in maggior misura per gli anziani che si ritrovano a vivere da soli.

 

EQUITÀ SIGNIFICA PIÙ CONTROLLI

Qualsiasi riforma che verrà approntata comporterà dei piccoli o grandi sacrifici da parte dei lavoratori, per cui in parallelo andranno ritarati i controlli verso chi già percepisce una pensione.

A partire dai pensionati /lavoratori, la casistica è abbastanza variegata e per farsi un’idea basta guardare alla vicina Italia per rendersi conto delle storture che la mancanza di controlli può generare Maggiori verifiche andranno poi effettuati anche verso chi sta “costruendosi” oggi i requisiti per andare in pensione, per cui quando si parla di fiscalità deve diventare chiaro a tutti che si parla anche di contributi previdenziali: l’evasore che non dichiara quanto guadagna o dichiara molto meno, non solo non versa le tasse con cui lo Stato mantiene il welfare, ma non versa nemmeno tutti i contributi che gli competerebbero.

 

LE RIFORMA IN ITALIA: DAL 1995 AL 2012

La rivoluzione verificatasi nelle pensioni degli italiani negli ultimi 20 anni è segnata da quattro tappe fondamentali: la riforma Amato nel ’92, la riforma Dini nel ’95, la riforma Maroni nel 2005 e la riforma Fornero nel 2012. Come per San Marino, la necessità di far tornare i conti di fronte al crescere della spesa pubblica e le proiezioni sull’evoluzione demografica, hanno spinto di vari Governi a modificare il sistema previdenziale. Non era più sostenibile un impianto ideato alla fine della guerra per sostenere il generale invecchiamento della popolazione e l’allungarsi delle aspettative di vita, ma soprattutto i meccanismi di calcolo e di concessione delle pensioni (e i privilegi) avrebbero potuto far esplodere i conti pubblici. Un sistema che assomigliava molto a quello sammarinese, basato su due pilastri (pensioni di anzianità e di vecchiaia) e su automatismi di calcolo di tipo retributivo sulla base della retribuzione degli ultimi 5 anni. Amato innalzò l’età pensionabile e cambiò il parametro per il calcolo, poi introdusse quindi alcune forme di previdenza complementare: nascono i fondi pensione (individuali o collettivi), lasciando ai lavoratori la scelta di aderire su base volontaria. Di fatto si aprì la via alla riforma Dini, del ’95, che rivoluzionò il sistema italiano con l’introduzione del calcolo contributivo. Un sistema che permise l’abbattimento degli importi delle pensioni, sancendo un “tradimento intergenerazionale” tra padri e figli. Per i meno fortunati (anzianità contributiva al 1996 minore di 18 anni) gli stessi contributi saranno semplicemente restituiti senza maturare alcun interesse reale con l’applicazione del metodo di calcolo contributivo a capitalizzazione simulata sulla crescita, mentre per i fortunati (anzianità contributiva al 1996 maggiore di 18 anni) i contributi previdenziali verranno restituiti in modo maggiorato, importi che si è visto, possono anche essere multipli di quanto versato. Questa distorsione ha di fatto azzerato uno degli obiettivi principali della riforma, visto che non si attuò la piena sostenibilità fiscale dei sistemi pensionistici obbligatori, determinando la necessità di riforme previdenziali in successione, fino all’ultima, la Fornero, che ha sancito (eccetto qualche fortunato e gli “esodati”) l’addio al metodo retributivo.

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