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Stephen King e il mistero dei cuori persi in Atlantide

da Redazione

C’è un periodo per ogni cosa. Anche quando si parla di lettura. Se una mattina ti svegli e decidi di prendere in mano il libro che da anni ti consigliano, fallo. E preparati. Alla delusione. O alla grande scoperta. E grande è stata la scoperta leggendo “Cuori in Atlantide” di Stephen King (Sperling&Kupfer, 2000). Qui non è il maestro dell’horror a raccontare… Di Simona B. Lenic.

di Simona B. Lenic


C’è un periodo per ogni cosa. Anche quando si parla di lettura. Se hai voglia di frivolezze non cominciare Borges o lo odierai per sempre. Se hai voglia di avventura non leggerti un saggio o ti avvilirai. Ma se una mattina ti svegli e decidi di prendere in mano il libro che da anni ti consigliano, fallo. E preparati. Alla delusione. O alla grande scoperta. E grande è stata la scoperta leggendo “Cuori in Atlantide” di Stephen King (Sperling&Kupfer, 2000). Qui non è il maestro dell’horror a raccontare. Qui lo scrittore diventa la mano del destino, che in cinque racconti – all’apparenza scollegati ma in realtà inscindibili – compone una tela complessa di mistero e ineluttabilità. Tutto ha inizio con “Uomini bassi in soprabito giallo”, con l’incontro tra il piccolo Bobby Garfield e l’anziano Ted Brautigan (nella foto un’immagine dal film tratto dal libro). E qui ci troviamo di fronte allo Stephen King che preferisco, quello capace di raccontare l’amicizia e i sentimenti – spesso contrastanti e intinti nel sopranaturale – con la profondità di una penna che non si appoggia sul foglio, ma lo squarcia. Anche quando è delicato, Stephen King è così potente da lasciarti l’amaro in bocca. E quando non è delicato, la violenza diventa qualcosa di selvaggio, non colpisce solo l’immaginario, ti mozza il fiato, ti fa male allo stomaco da quanto ci affonda il suo pugno. Poi il libro procede spiazzando il lettore. Nel secondo racconto (cha dà il titolo al libro) nuovo protagonista, nuova ambientazione, altri anni. Gli anni che vedono nascere i movimenti contro la guerra in Vietnam. Gli anni in cui comincia a vedersi in giro il simbolo della pace. E in cui incontriamo Carol – il primo amore di Bobby – al college. È una giovane donna. È il filo conduttore di una storia che prende forma quando tutti sono bambini. Bambini che non dimenticano. Bambini che diventano adulti pieni di rimorsi e convinzioni che sfociano nell’errore, in onore di una giustizia imparata da piccoli. E gli anni procedono negli altri racconti (“Willie il cieco” e “Perché siamo finiti in Vietnam”, sotto tono rispetto al resto). E raccontano la guerra. Quello che ha lasciato a chi è riuscito a tornare. Quello che ha lasciato a chi non è mai partito. Fino a “Scendono le celesti ombre della notte” – brevissimo racconto conclusivo – che riporta in qualche modo alle origini, come se solo da anziani si riuscisse a guardare allo specchio il bambino che si è stati, senza vergognarsi. Come se tornare dove tutto ha avuto inizio fosse un dolore da affrontare solo quando ne hai incontrati tanti altri, tanto più forti. Solo allora ci si può sedere nell’angolo del bosco dove non avresti voluto più tornare. Solo allora ti puoi sedere lì, senza avere più paura ma solo nostalgia. Perché sedendoti su quella panchina, aprendo un vecchio libro, quello che vedi non sono gli errori, ma l’attimo prima, il momento preciso in cui ancora dovevi compierli. Il momento in cui avresti potuto fare qualcosa di diverso. Il momento in cui eri un bambino che dava la caccia a code di aquiloni appese ai cavi del telefono.

www.simonalenic.it


Simona B. Lenic scrittrice, autrice di “Setalux”, libro candidato al 51° Premio Bancarellino
Su San Marino Fixing scrive di libri, letture e lettori.

 

Nella foto un’immagine del film tratto dal libro

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