La “Divina Commedia” di Dante: la condanna non è mai un destino. Non perdere tempo a giudicare, ma impara a fidarti del tuo Virgilio.
di Simona Bisacchi Pironi
Tutto ha inizio con l’Inferno. Eppure il viaggio che Dante racconta è così vivo e generoso, che il suo autore lo chiamò “Commedia”. Quasi ci tenesse a far capire che la lettura che si intraprende non è una tragedia, non è una storia che finisce male. Bisogna avere un po’ di pazienza, ma poi il Paradiso arriva.
Tutto ha inizio con l’Inferno ed è un Inferno da cui si rimane profondamente colpiti. Forse è addirittura la cantica che meglio si capisce. La più immediata, la più comprensibile. Il peccato, come occasione perduta, è qualcosa di familiare a tutti. Ed è familiare il tormento degli ignavi. La passione di Paolo e Francesca. Il desiderio di conoscenza di Ulisse. Il gelo che circonda Lucifero. A scavare nella memoria personale, ognuno può ritrovare un po’ di se stesso lungo i gironi.
Dante descrive con dovizia di particolari l’Inferno che l’essere umano si porta addosso, quello che ogni giorno deve affrontare, quello che risiede in lui, e quello che il mondo gli schiaffa davanti per insegnargli che ciò che c’è fuori è solo lo specchio di ciò che ha dentro.
Ma non si ferma qui Dante. Non lascia annegare l’uomo in un pessimismo senza via di uscita. Perché anche se quell’Inferno è presente, la condanna non è un destino. La salvezza è ancora, ogni giorno, possibile. Ti racconta che da quell’Inferno puoi uscirne vivo, perché ti assicura che non sei solo, che se ti guardi bene intorno troverai al tuo fianco una guida, qualcuno che ti farà strada tra i tormenti. Il tuo Virgilio è lì – a volte è un amico che ti dà l’informazione giusta, a volte è solo un parola che arriva quando meno te lo aspetti – e se lo ascolti, quegli inevitabili affanni diventano superabili.
Dante ti racconta che puoi scendere all’Inferno e uscirne integro.
La selva oscura ha un richiamo forte su ogni uomo che decida di guardare in faccia se stesso. Ma non è un richiamo verso la morte, è un richiamo verso la vita, verso la verità di se stessi, delle proprie fragilità, della propria umanità: unica via che porta al Paradiso.
Difficili, sin troppo elevati sono i versi della terza cantica di Dante. Capiamo così bene questo Inferno, ma il Paradiso ci sfugge, nella “Divina Commedia” come nella mente.
Eppure, il Paradiso è ciò che instancabilmente l’uomo cerca. Riduzione triste e assai banale sarebbe far coincidere il Paradiso con una vita agiata, tranquilla. Dante aspira a molto di più. A Dio. All’armonia. A quella pace misteriosa che tutto accoglie e solo il bene racchiude in sé.
E per cogliere la complessità de “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, Dante sembra disseminare le cantiche di ammonimenti, di inviti alla semplicità. All’umanità.
Ammetti i tuoi limiti, la tua incompetenza, senza scadere nell’insicurezza. Non perdere tempo a giudicare: gli altri si giudicano già abbastanza da soli e sono spietati. Non svilirti con inutili moralismi. Non costruirti ulteriori gironi dell’Inferno. Fidati del tuo Virgilio, perché c’è sempre qualcuno che ne sa più di te. Sempre. Non rinnegare la tua Beatrice – che è la parte migliore di te, il sentimento più alto che sei in grado di provare – e vai. Affronta il tuo Inferno. E non dubitare nemmeno un istante che possa spalancarsi il Paradiso.