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Si lascia il proprio Paese per amore, per un sogno

da Redazione

Come scrive Mario Benedetti, per Javier “tutto inizia dalla nostalgia”. Quando ascolti la radio speri sempre che diano notizie della tua terra.

 

di Simona Bisacchi Pironi

 

C’è sempre una questione importante da affrontare, quando si lascia il proprio paese.

Per amore.

Per lavoro.

Per un sogno.

Oppure si lascia per disperazione. Per fuggire alla ferocia. Alla persecuzione.

In “Andamios. Il romanzo del ritorno” (1996), Mario Benedetti racconta la storia di Javier, emigrato in Spagna dall’Uruguay, in un esilio volontario, ma indispensabile, per scappare dalla dittatura.

“Andamios” significa impalcature. Quelle strutture su cui arrampicarsi per poter lavorare alla costruzione di un palazzo, o al suo restauro.

I ricordi, i viaggi, gli incontri sono come impalcature che costruiscono una persona.

E quando questa persona vuole tornare in patria, allora quelle strutture servono per costruire una strada. Una strada capace di andare avanti, anche quando “andare avanti” significa “tornare indietro”. Tornare al punto di partenza.

L’impalcatura continua a crescere e adattarsi quando Javier è di nuovo a casa, e si accorge che il peggio è passato, che la dittatura è finita ma “In breve giunge alla conclusione che il paese, nella sua essenza, non è cambiato. La scorza è un’altra. Questo può essere. Ma la polpa e il nocciolo sono quelli di sempre”.

Perché gli anni hanno portato a un cambiamento radicale, è vero, però non nel tessuto della tua terra, ma nel tessuto della tua carne: “Coloro che erano tornati dall’esilio si sentivano un po’ estranei, rientravano nel paese come negli abiti di qualcun altro, troppo grandi o troppo stretti, ma presto cominciavano a rivedere le aspettative, a correggere le nostalgie”.

Tutto inizia dalla nostalgia. Lo sa bene Javier, che ha imparato il suo linguaggio e ha definito la sua natura, dividendola in tre stadi.

“Il primo, quello in cui ti rifiuti di disfare le valigie perché ti illudi che il ritorno sia domani. Tutto ti appare estraneo, indifferente, lontano. Quando ascolti il giornale radio, segui solo le notizie del mondo, sperando sempre che dicano qualcosa, qualcosina, almeno, del tuo paese, della tua gente”.

C’è poi una fase successiva, che sembra portarti all’accettazione della nuova realtà. “Il secondo stadio è quando cominci a interessarti a quello che ti succede intorno, a quello che promettono i politici, a quello che non fanno (e allora ti senti già come a casa), a quello che gridano i muri, a quello che canta la gente”.

Ed è proprio quando quel paese così diverso comincia a esserti familiare, quando la tua vita si è adattata a quell’angolo di mondo, “finalmente crollano le barriere politiche che impedivano il ritorno. Solo allora ti si apre il terzo e ultimo stadio, ed è lì che comincia la smania lussuriosa e quasi assurda, la paura di perdere la benedetta identità, la coazione nel cuore e lo scampanellio nel cervello. E anche se sai benissimo che tutta l’operazione non sarà un’impresa memorabile né una solennità, il ritorno a casa diventa a poco a poco una scelta irrinunciabile”.

Sacrifici e rielaborazione sono tra i montanti di queste impalcature, per ritrovarsi sulla spiaggia della sua patria, perché “Qui uno ha la possibilità di pensare. Ed è fantastico. Ne avevo quasi perso l’abitudine, e ritrovarla mi pare un miracolo”.

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