Home FixingFixing Quella “saldatrice” rudimentale per aggiustare gli attrezzi dei campi

Quella “saldatrice” rudimentale per aggiustare gli attrezzi dei campi

da Redazione

Consorzio Terra di San Marino, Ezio Bartolini spiega il funzionamento e le parti della “fucina”.

 

“Suonano i rintocchi del martello rude / sulle stridenti braci il ventoso / i fanciulletti, che dalla scuola / tornano, all’uscio fermano il passo/ e contemplando senza parola / stanno il martello, che or alto or basso / fuor della soglia correre a mille / come la pula, fa le scintille”.

Impossibile descrivere la meraviglia dei bambini davanti a quelle “stelle scintillanti”, vera magia per gli occhi. Proviamo a restituire ai nostri lettori parte di questa alchimia visiva cambiando punto di vista: non quello dei più piccoli bensì quello di chi il ferro lo batteva. E lo facciamo assieme a Ezio Bartolini, curatore della Casa di Fabbrica di San Marino, meglio conosciuta come Museo della civiltà contadina.

Ezio ci accompagna al primo piano della struttura. “Nel primo Novecento, ma anche prima – racconta – i contadini non avevano le saldatrici come vengono intese oggi. Eppure, con una certa frequenza – anche per il lavoro che facevano – avevano bisogno di sistemare gli attrezzi rovinati”. Capitava difatti che il vomero di un aratro “incontrasse” un sasso “dispettoso” e si rompesse. A questo punto i contadini si rimboccavano le maniche e, senza mai cadere nello sconforto, si adoperavano per rimettere in uso l’oggetto incidentato. “Alcune famiglie disponevano di piccole fucine, fondamentali per eseguire le riparazioni. Oltre all’aratro, poteva accadere che si rompesse il cerchio di una botte. Per tutti questi lavori ‘urgenti’, ci si arrangiava in casa”.

Ezio si avvicina alla piccola saldatrice rudimentale. All’apparenza sembra – e lo diciamo con un sorriso ingenuo – un barbecue. Il curatore ci riprende e bonariamente ci ammonisce: “Si tratta di una fucina. Una volta acceso il fuoco, venivano impiegati piccoli rametti di legno e carbone ‘Coke’ (si ottiene quale residuo della distillazione secca del carbon fossile a temperatura elevata; si presenta come un materiale di colore grigio più o meno chiaro, leggero e molto poroso, con lucentezza più o meno evidente, ndr) e, attraverso una ventola in ghisa, azionata manualmente e disposta su un lato che immetteva l’ossigeno, si alimentava il fuoco”. Alla base del braciere, esattamente sul fondale, venivano applicate delle piccole colate di cemento, utilissime per rinforzare il pianale. “Il fabbro poi prendeva un’incudine di acciaio su cui battere gli utensili incandescenti – prosegue il signor Bartolini -. Per ripristinare gli oggetti si serviva di martelli piatti o a punta, di pinze per tenere gli oggetti arroventati, ma anche di piccoli trapani in ferro a propulsione manuale. Una volta eseguita la riparazione, gli utensili – soprattutto da lavoro ma in qualche caso anche alcuni utensili da cucina abbastanza grandi – venivano fatti raffreddare e poi subito rimessi in uso”.

Viste le dimensioni contenute delle fucine, i contadini le potevano anche trasportare da un luogo all’altro: sotto i portici, ma anche direttamente sui campi, pronte per essere utilizzate.

La riparazione degli strumenti da lavoro diventava anche un momento di condivisione. “Nei campi c’era molta solidarietà: le persone si aiutavano e collaboravano volentieri. Una mano in più serviva sempre”. Lo scambio della manodopera e dei favori diventava così un gesto di amicizia profonda, solida. La stessa si si può toccare con gli occhi quando si incontrano i versi del poeta Kahlil Gibran: “Quando lavorate siete un flauto / attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica. (…) Quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra”.

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