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San Marino, il dialetto è un grande “granel ad sabia”

da Redazione

Intervista al poeta sammarinese “Checco” Guidi sulla lingua vernacolare e sulle lievi differenze di pronuncia delle parole tra i nove Castelli del Monte Titano. Un viaggio alla riscoperta delle radici e della lingua parlata.

 

di Alessandro Carli

 

Nella straordinaria antologia dedicata ai poeti dialettali romagnoli e curata dall’editore Pier Giorgio Pazzini di Verucchio ha trovato spazio anche un nome che a San Marino conoscono tutti: Francesco “Checco” Guidi.

“E’ granel ad sabia” – questo il titolo dell’opera – è la legittimazione e il riconoscimento dovuto di un lavoro sul dialetto sammarinese portato avanti nel tempo con grande autorevolezza.

La presentazione del libro, avvenuta a fine anno all’interno di Asset banca, ci dà lo spunto per riflettere, assieme al poeta, sul ruolo del vernacolare.

Qual è la forza del dialetto?

“Io penso e sono convinto che la forza principale del dialetto sia la sua origine fondata sulla vita reale di ogni giorno, unitamente alla schiettezza e alla simpatia che sa trasmettere immediatamente a tutti – giovani e meno giovani; non va sottovalutata poi la grande musicalità di questa lingua che dà a chi ascolta la sensazione di ascoltare una melodia”.

Oggi il dialetto si sta perdendo. C’è un modo per recuperarlo?

“Certamente il rischio di perdere la comprensione e l’utilizzo del dialetto oggi è molto grande soprattutto tra i ragazzi e i giovanissimi, nati con il telefonino, il computer e altre diavolerie del progresso. Ma la causa principale della non trasmissione di questa lingua alle nuove generazioni è, a mio avviso, oltre naturalmente al grande e repentino cambiamento delle abitudini di vita con l’abbandono delle campagne e della tradizione contadina (essenza della Romagna più vera), la mancanza della figura dei nonni nel nucleo familiare; i nonni spesso sono stati dirottati nelle case di riposo, o nel migliore dei casi sono stati affidati alle badanti e non c’è quasi più il contatto tra essi e i nipotini, i quali – tra l’altro – sono super impegnati con la scuola e mille altre attività sportive e ricreative. Ritengo comunque che ci siano ancora margini di recupero per il dialetto e le tradizioni, attraverso l’aiuto della scuola; gli insegnanti inseriscono spesso nei loro programmi – almeno qui nella mia realtà locale – lo studio delle tradizioni e la riscoperta delle radici aiutandosi con i modi di dire e i detti popolari; io stesso sono chiamato periodicamente presso i plessi scolastici per aiutare i ragazzi a rivivere il recente passato, a far loro conoscere da dove veniamo, e a far apprezzare attraverso la lingua dialettale il percorso tracciato dai nostri genitori e dai nostri nonni per far crescere e sviluppare questo Paese. Proprio con queste finalità, oltre alle visite alle scuole del territorio su richiesta degli insegnanti, ho ideato e finalmente da qualche anno sono riuscito a formare un laboratorio dialettale gratuito per tutti i bambini e ragazzi interessati – che ho voluto intitolare ‘T’arturnarè ma la grèpia!’ (modo di dire antico e pieno di saggezza, la cui traduzione in lingua italiana è ‘Tornerai alla mangiatoia’ che nel caso presente vuole anche significare ‘la tavola’ ma in una visione più ampia può anche voler dire ‘tornerai alle origini, alle radici’); sono una decina i bambini che frequentano fino ad oggi questi incontri che tengo settimanalmente presso il Centro Sociale Sant’Andrea di Serravalle, e durante i quali – attraverso la spiegazione dei modi di dire o detti popolari della nostra tradizione – cerco di trasmettere entusiasmo e voglia di conoscere la vita dei nostri genitori e nonni, coinvolgendo anche alcuni di loro negli incontri e scrivendo per i ragazzi scenette teatrali da recitare esclusivamente in dialetto. La voglia di questi bambini e il loro impegno fanno ben sperare per il futuro”.

Il dialetto cambia da Castello a Castello. Ci può fare una panoramica su alcune parole che si dicono diversamente tra Dogana e Città, per esempio?

“Il grande glottologo e studioso del dialetto romagnolo Friedrich Schurr (1888-1980) diceva che ‘non esiste un dialetto romagnolo, ma un’infinità di parlate romagnole digradanti di luogo in luogo, quali continue variazioni su un fondo comune’. In effetti anche noi abitanti di San Marino, in un territorio geograficamente limitatissimo ci accorgiamo di quanto siano vere le affermazioni dello Schurr; a volte basta allontanarsi di qualche chilometro e già si sente una significativa differenza tra le varie parlate dialettali: noi del serravallese (abitanti del Castello di Serravalle – un tempo avamposto dei Signori Malatesta di Rimini) ad esempio siamo da sempre canzonati perché ci distinguiamo nel parlare in dialetto da tutti gli altri Castelli della Repubblica. E’ famosa la frase ‘ho magné la moila’ (‘ho mangiato la mela’) mentre in Città dicono ‘ho magnéd la méla’; e così per la ‘poira’ (pera) al posto di ‘péra’, ‘e’ croin’ (grande cesta) al posto di ‘crèin’, ‘dutour’ (dottore) al posto di ‘dutor’ , ‘garboin’ (garbino) al posto di ‘garbèin’, ‘burdil’ (ragazzi) al posto di ‘burdèl’, ‘j ucc’ (gli occhi) al posto di ‘j àcc’, ‘nun’ (noi) al posto di ‘noun’, ‘i nutli’ (i pipistrelli) al posto di ‘i nòtli’. Occorre dire che se da un lato queste piccole o grandi differenze di pronuncia di tanti nomi e parole sembrano creare difficoltà per lo scambio di dialogo o di rapporti tra le persone, dall’altro, queste diversità dimostrano tutta la ricchezza di una lingua le cui molteplici radici sono tanto profonde quanto la storia”.

Una volta il dialetto era la parlata delle gente semplice. Oggi invece potrebbe avere una nuova funzione, più elevata?

“Così come è vero che un tempo il dialetto era la lingua della gente comune, dei poveri, della campagna (è bene ricordare che fino agli inizi del secolo scorso la percentuale di analfabetismo era altissima), ora con l’abbandono della vita contadina, con il miglioramento della qualità della vita, con l’affermarsi prepotente dei mass- media e quindi di un linguaggio unico che fosse comprensibile a tutti, oggi – e probabilmente ancora di più in futuro – il dialetto potrebbe assumere una nuova e più nobile dimensione, elevandosi a lingua dei poeti. Abbiamo un bellissimo esempio in Romagna, terra di poeti dialettali: i già citati grandi Spallicci, Guerrini, Pedretti, Baldini, Guerra, Fucci e molti altri ancora, hanno fatto conoscere il ‘romagnolo’ oltre i confini della nostra Terra e altrettanto accadrà in futuro con tanti giovani, alcuni già affermati, allievi dei maestri sopra ricordati”.

La poesia ha una vita anche in scena. Cosa cambia tra la parola letta in pubblico e la parola letta in maniera solitaria?

“La poesia effettivamente, così come un po’ tutte le arti, raggiunge il suo massimo effetto quando il gesto di declamare ad alta voce un testo poetico avviene davanti al pubblico; da ragazzo pensavo, andando a teatro, che gli artisti sul palco sembravano a loro agio, ma non li invidiavo perché – mi dicevo – chissà quanto impegno e quanta tensione continua dovevano sopportare tutti i giorni a ripassare e ad imparare a memoria il copione di un nuovo lavoro. Poi mi sono reso conto con il passare degli anni che la bellezza di portare in scena nuovi lavori e di recitare davanti ad un pubblico attento e partecipe pagava sicuramente più di tutte le difficoltà incontrate in precedenza. Adesso che anch’io – pur nella semplicità della mia passione per il dialetto – ho avuto modo di mettermi in gioco e di provare l’emozione di declamare miei testi poetici – allegri o seri che siano – davanti al pubblico, formato a volte da persone anziane, a volte da bambini, a volte nei piccoli teatri o sulle piazze, ho capito, almeno in parte, cosa provano quegli attori sul palco. E se i versi che declamo a memoria guardando negli occhi i presenti riescono a fare breccia nei cuori degli ascoltatori si intuisce questa specie di scambio reciproco di emozioni ed è una sensazione unica che appaga il nostro animo”.

Il dialetto permette di descrivere passaggi di vita chela lingua italiana non riesce.

“E’ comunque chiaro e riconosciuto che il dialetto, pur nella limitatezza della sua comprensione a luoghi e persone, sa descrivere momenti e storie di vita con una ricchezza che la lingua italiana non riuscirà mai a raggiungere, grazie alla genuinità, alla schiettezza e alla immediatezza di parole e frasi che nascono, e nascevano, dalla vita semplice di ogni giorno”.

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