Home FixingFixing Sebastiao Salgado è il vero sale della terra

Sebastiao Salgado è il vero sale della terra

da Redazione

Due grandi maestri che intrecciano immagini fisse e immagini in movimento. Così Wenders racconta la fotografia sociale.

 

di Alessandro Carli

 

Colpevolmente snobbato nonostante girato da uno dei grandi maestri del cinema mondiale, quel Wim Wenders che qualche anno fa aveva girato uno straordinario film sulla vita e sulle opere di Pina Bausch, “Il sale della terra” è forse il pensiero più gentile che uno spettatore possa donarsi in questo colpo di coda del 2014.

Al centro del viaggio del regista tedesco incontriamo Sebastiao Salgado, uno dei fotografi più importanti del mondo. Sono lui e la sua macchina fotografica il sale della terra: una vita di viaggi, di indagine sociale su fette di globo terreste, spesso troppo lontane dagli occhi per essere conosciute.

 

sale della terra1

 

La costruzione del film è semplice: l’artista brasiliano racconta le sue foto. Denso, molto più denso invece il contenuto: la “scusa” – nobilissima – che avanza Wenders (non è una giustificazione ma un piccolo cameo) per spiegare la creazione del documentario è – guarda caso – un’immagine che lo stesso regista acquistò tanti anni fa e che rappresentava una ragazza africana cieca. Da questa Santa Lucia – che ancora oggi è appesa nello studio di Wenders – la scintilla: chi è Salgado il fotografo, chi è Salgado l’uomo, chi è Salgado marito e padre di famiglia, qual è la vita di Salgado.

Dalle famosissime foto scattate nella miniera d’oro del Brasile – 50 mila persone che cercavano una vita migliore: contadini, laureati, persone comuni che agli occhi sembrano formiche silenziose e operose – all’amata e dolorosa Africa: Rwanda, Congo, uomini e donne che scappano dalla fame e dalla guerra, sguardi di bambini che sembrano animali in fuga, vestiti con poco. Salgado indaga, porta alla luce, senza pietismo: è un racconto per immagini, il suo, che parte da dentro.

 

sale della terra2

 

Sogni e verità in bianco e nero, cercati con la caparbietà di chi ha capito che dopo una laurea in economia e un futuro brillante nella finanza londinese, c’era un universo-uomo da esplorare.

Migrazioni forzate, disegnate quasi a matita: i leoni marini dell’Antartide, i popoli del Brasile del nord est, gli uomini del petrolio, gli aborigeni con un osso nel mento – quelli che mettono al centro della società la donna, che ha quattro o cinque mariti diversi ognuno dei quali provvede a modo suo (pesca, caccia, terra) al sostentamento della compagna – e poi l’orso polare bianco, i pinguini.

Un viaggio di ritorno – questo il significato di nostos – che si compie solamente alla fine: Sebastiao, assieme alla moglie Lélia, torna alla fazenda di famiglia, in Brasile, una terra che sembra una pelle di cammello, rinsecchita dal sole.

Sebastiao e Lèlia la sistemano, portando oltre 2 milioni di nuove, piccole piante, e donano la proprietà allo Stato.

Tra la miniera e la fazenda, una vita spesa sotto i soli e la sete del pianeta terra, arso da quel sale che dà il titolo al film.

Forse potrebbe interessarti anche:

Lascia un commento