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Città e abitanti: identità che mutano e dialogano

da Redazione

Apre oggi “Id. Rimini (2009-2010)”, la mostra-analisi di Marco Vincenzi. L’artista: “La fotografia è comunicazione che fa uso della percezione”.

 

di Alessandro Carli

 

Un evento – in questo caso la mostra “Id. Rimini (2009-2010)” di Marco Vincenzi, da venerdì 10 ottobre al 23 novembre al Museo della Città di Rimini – diventa testo e pretesto per discutere, parlare e riflettere attorno e di arte visiva.

L’artista, che vive nella Rerpubblica di San Marino da quasi 30 anni, è un osservatore attento delle mutazioni sociologiche delle città: analizza, racconta e indaga quel legame biunivoco che accade tra l’architettura e l’uomo. In occasione del taglio del nastro della mostra (alle 18) e della conferenza che seguirà (“Il rapporto tra pubblico e privato nella sociologia urbana. La fotografia come strumento di indagine”, curata dall’Ordine degli Architetti di Rimini e condotta da Giandomenico Amendola, ordinario di Sociologia Urbana della facoltà di Architettura dell’Università di Firenze), raccogliamo quello che le fotografie non dicono: le parole. “Id. Rimini (2009-2010)” è solo lo spunto iniziale per poi allargare il campo visivo verso la società. Società che ben conosce: Vincenzi è difatti sociologo, esperto di comunicazione visiva e di fotografia, e ha collaborato con enti e istituzioni per la realizzazione di progetti di ricerca, attività culturali e mostre.

Rimini è una città che ha molte anime architettoniche ma che spesso non le ha mai interrogate. Cosa si cela dietro al titolo “Id. Rimini (2009-2010)”?

“In un suo libro, Rebecca Solnit scrisse che ‘le strade sono lo spazio di risulta tra gli edifici (…), lo spazio pubblico non è che il vuoto tra i luoghi del lavoro, i negozi e le abitazioni. Il camminare è soltanto l’inizio dell’essere cittadini, ma camminando il cittadino conosce la propria città e i propri concittadini e abita realmente la città e non soltanto una piccola porzione privatizzata. Camminare per le vie è ciò che connette il leggere una cartina stradale con il vivere la propria vita, il microcosmo individuale con il macrocosmo pubblico; dà un senso al dedalo che c’è intorno. (…) Il camminare conserva agli spazi pubblici la specificità dell’essere pubblici e la loro viabilità e le sue parole inquadrano perfettamente ciò che si cela nel libro che ho realizzato raccogliendo le fotografie frutto di un’indagine visuale realizzata tra il 2009 e il 2010, camminando lungo le strade della città di Rimini, al di fuori delle mura, ma ancora nella zona cittadina. ‘Id.’ sta per identità ed è proprio ciò su cui mi sono interrogato fotografando il volto delle case private dei riminesi, dalla strada: il luogo pubblico che ne permette la visione”.

Com’è nato il progetto?

“Lavoro a Rimini ormai da quindici anni e l’ho sempre percepita come fatta di uomini e donne che si muovono a garanzia di un’economia turistica, così ho iniziato a percorrerla a piedi, nelle zone del centro, ma al di fuori delle mura e, soprattutto, lontano dal mare, per vedere se ne potevo trarre un’immagine diversa, più personale. Volevo vedere dove i riminesi vivono dopo la giornata di lavoro, nel loro privato, ma senza entrare nell’intimo, stando sul suolo pubblico”.

Su cosa si è soffermato? La città è densa di luoghi da riscoprire…

“Quello che mi è venuto subito all’occhio è la poca cura che viene dedicata a questa sfera del privato, quella pubblica. Così, mi sono soffermato sui caratteri delle abitazioni, da fuori, includendo nelle fotografie il cosiddetto ‘verde’ e le recinzioni, a garanzia di uno spazio privato”.

L’immagine scelta per il lancio della mostra e del libro è quella di un cancello in bianco e nero, sormontato da alcuni rami. Superiamo l’inferriata: cosa si incontra?

“Non saprei dire, ed è proprio questo il punto. A guardare da fuori si direbbe che siano un po’ tutti uguali e un po’ tutti uguali a tanti altri di altri luoghi. Ma sicuramente non è così, tant’è che mi piacerebbe poter far sorgere l’interrogativo su quale identità assumono i riminesi quando non devono garantire l’identità pubblica di romagnoli accoglienti e organizzati, per far trascorrere piacevolmente le vacanze ai turisti che la vengono ad occupare in estate. Ma per far questo sarei dovuto entrare nel privato delle loro case, perché da fuori non traspare nulla, nonostante io abbia fotografato piccole case e palazzine di modesta qualità architettonica, frutto del lavoro degli anni d’oro, quelli della crescita economica e non i condomini popolari della periferia, omologati e omologanti”.

Si parla spesso di sociologia urbana, il rapporto, in estrema sintesi, tra l’interazione umana e la città. Cos’è per lei e che importanza ha?

“Di una città è ciò che mi attrae e mi interessa maggiormente. Quando visito le città amo camminare per le strade poco importanti da un punto di vista architettonico o dei monumenti, perché mi piace respirare l’aria che viene respirata da chi le percorre per recarsi a casa o, al contrario, per andare al lavoro, il mattino, dopo aver vissuto alcune ore dedicate solo al proprio privato. Sono le strade che mostrano quale rapporto si instaura tra pubblico e privato, tra casa e strada, dove la ‘soglia’ separa lo spazio pubblico da quello privato introducendosi come un’entità indefinita, ma sostanziale; quella che ci porta a passare dall’essere persona al ruolo e viceversa”.

Un luogo non può non rapportarsi quindi con la sociologia urbana. E la fotografia è uno strumento di indagine. Che risposte ha trovato nel suo viaggio?

“Da un punto di vista sociologico, la fotografia è comunicazione artistica che fa uso della percezione ed è sua prerogativa non dare risposte ma porre domande. Indagare una realtà urbana significa quindi interrogarsi su di essa, affinché chi si pone come osservatore di fronte alle fotografie possa comprendere la distinzione tra ciò che il fotografo ha prodotto sul piano dell’azione artistica e l’informazione. Solo così la percezione che ne ricava l’osservatore potrà assumere nuovi significati per le successive comunicazioni”.

Architettura e fotografia. Un binomio che porta – anche – a quel “Terzo paesaggio” studiato da Gilles Clement.

“Se non ricordo male, il ‘terzo paesaggio’ riguarda terreni in abbandono, incolti o vegetazione che si riappropria dello spazio antropizzato, confondendosi con delle architetture disfatte. Gilles Clement ne parla come di una risorsa indispensabile di diversità e di bellezza, che non credo abbia a che fare con l’apparente incuria in cui versano alcune delle abitazioni che ho fotografato nel mio lavoro. È certo che la fotografia degli ultimi anni ha perversato questi territori e ne ha fatto una forma estetica di successo”.

Rimini, come tutte le città di mare, è per antonomasia un “luogo di passaggio, di arrivi e di partenze”. Questo suo essere testa di ponte verso l’Adriatico in che modo ha influenzato il rapporto tra le persone e il luogo?

“Se devo esprimere un punto di vista personale, che non ha nulla a che vedere con la fotografia, dico che questo luogo, Rimini, per l’esigenza di caratterizzarsi da un punto di vista economico, ha negato ai suoi abitanti la possibilità di essere delle ‘persone’ (intese come esseri unici e specifici), costringendole ad assumere un ruolo, che funzionasse anche come forma della ‘persona’. Ecco che allora esistono i romagnoli e tra i romagnoli i riminesi, con le loro caratteristiche di persone accoglienti e laboriose, che quando non lavorano e non si rapportano con il sistema ‘turismo’ non esistono. Con quest’affermazione intendo dire che non esistono socialmente, ma solo nel loro privato, dove non sappiamo bene che cosa siano e che forma abbiano. Ed è proprio questa convinzione che mi ha portato a riflettere sulla forma della identità privata degli abitanti di questa città”.

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