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L’eterna deflazione nipponica Il rischio tsunami nel pantano

da Redazione

Uno fa presto a dire: stagnazione! Dopo vent’anni di questa solfa, in Giappone si potrebbe benissimo dire “pantano”. Un pantano nel quale tuttavia potrebbe scatenarsi da un momento all’altro un terribile tsunami, perché gli squilibri non restano tali in eterno e prima o poi dirompono.

di Paolo Brera


Uno fa presto a dire: stagnazione! Dopo vent’anni di questa solfa, in Giappone si potrebbe benissimo dire “pantano”. Un pantano nel quale tuttavia potrebbe scatenarsi da un momento all’altro un terribile tsunami, perché gli squilibri non restano tali in eterno e prima o poi dirompono. Anche se la deflazione giapponese, che ha fatto séguito al più atroce esempio di bolla immobiliare della storia, all’eternità ci sta andando abbastanza vicino.
Nessuna politica è riuscita a spezzare la spirale deflazionista degli anni Novanta e Zero. La Banca del Giappone pratica da oltre un decennio una politica monetaria molto espansiva, con tassi d’interesse prossimi allo zero e immensi acquisti di titoli di Stato. Il quale Stato spende come se domani l’altro dovesse cadere sulla Terra un altro asteroide dei dinosauri e ha già accumulato un debito pari al 225% del pil. Eppure non c’è stato niente da fare. E l’indice Nikkei 225, che nel 1990 aveva toccato quota 40.000, adesso si trova fra 9000 e 9500, dopo essere precipitato fino a un minimo di 7600 nei mesi più tempestosi dell’ultima crisi dei subprime.
La deflazione ha colpito duramente. Il deflatore del pil (la misura più generale dell’inflazione) è diminuito in ciascuno degli anni successivi alla metà degli anni Novanta, e anche l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,3% all’anno in tutto l’ultimo decennio. Il pil nominale del Giappone è stato, nel 2009, di 474.250 miliardi di yen (al cambio attuale, 4400 miliardi di euro): il più basso dal 1991. In termini reali, nell’ultimo ventennio c’è stato invece un aumento: se vogliamo considerare tale un tasso medio di crescita dello 0,73% all’anno.
Di fronte a un micidiale cocktail del genere, la maggior parte dei Paesi avrebbe avuto un crollo. Il Giappone invece è rimasto in piedi, grazie ad una combinazione unica: l’alto livello del risparmio delle famiglie, il perpetuo avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, i tassi d’interesse molto bassi e l’apprezzamento dello yen solo graduale. A tutto ciò bisogna aggiungere la rapida emersione dell’economia cinese, rispetto alla quale l’Arcipelago si sta sempre più ponendo come un servitore di gran classe, capace di fornire beni di consumo di elevata qualità e beni d’investimento ad alta tecnologia.
L’ampio deficit pubblico può essere finanziato con relativa facilità grazie ai tassi d’interesse rasoterra e all’alto tasso di risparmio delle famiglie. Ma è ovvio che questa situazione non andrà avanti per sempre: il prossimo periodo di turbolenza nei mercati valutari potrebbe determinare una sostanziosa rivalutazione dello yen e per questa via togliere di mezzo l’avanzo nella bilancia dei pagamenti, il che renderebbe più arduo finanziare il deficit e porterebbe a misure di austerità. A questo punto, sarebbe solo questione di tempo prima di una seria caduta dell’attività economica.
Per certi versi, siamo già a questo. Dopo le cadute del pil reale verificatesi nel 2008 e 2009 (-1,2% e -5,2% rispettivamente, secondo il Fmi) nel 2010 stiamo assistendo a una ripresa predetta nell’1,7%. Già l’anno prossimo la crescita dovrebbe scendere allo 0,6%.
La forza motrice di questa ripresa è l’export verso i mercati dei Paesi emergenti del-l’Asia. Ma la crescente forza dello yen – passato in due anni da oltre 105 a meno di 85 per dollaro – sta ormai frenando le vendite. La domanda delle famiglie ristagna, tendenza alla quale non è estraneo l’invecchiamento della popolazione. Un ulteriore stimolo attraverso la spesa pubblica non è più così facile da ipotizzare. Le agenzie di rating sono state molto clementi finora con il Giappone, “vecchio leone” del debito pubblico. Ma bisognerebbe avere le fette di salame sugli occhi per non rendersi conto dell’accumularsi di un tremendo squilibrio.
Questi sono i motivi principali per cui gli analisti giapponesi prevedono per l’anno prossimo un indebolimento della congiuntura, dunque il consolidamento della tendenza alla deflazione che si era attenuata, senza scomparire, negli ultimi anni primi della crisi dei subprime. Le famiglie stanno anch’esse mostrando l’emergere di una psicologia deflazionista, con il rinvio degli acquisti in vista di un ribasso dei prezzi.
La situazione politica, certo, séguita ad essere uno dei punti di forza del Paese. Non esiste un vero problema di immigrazione e la coesione sociale è leggendaria. Anche se i partiti di governo si sono sempre mostrati molto attenti ai bisogni della popolazione della terza età, che costituisce una quota elevata e crescente dell’elettorato, con il risultato di rafforzare la deflazione, un’azione per modificare lo stato delle cose non incontrerebbe probabilmente un’opposizione troppo risoluta. Restano, certo, tutte le incognite della globalizzazione, che potrebbero fare entrare dalla finestra ciò che ora non c’è e dalla porta non entrerebbe. Ma questa incertezza è comune a tutti i Paesi, mentre le peculiarità giapponesi non sembrano destinate ad andarsene tutte di colpo.

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