Home FixingFixing Erga omnes sì, ma solo se c’è la maggioranza

Erga omnes sì, ma solo se c’è la maggioranza

da Redazione

Rappresentatività: nuove norme per conteggiare gli iscritti ai sindacati. L’obiettivo della legge: un solo e unico Contratto Collettivo di settore.

 

di Daniele Bartolucci

 

Il principio dell’erga omnes non verrà solo preservato, ma potenziato e reso ancora più efficace grazie all’introduzione del principio di rappresentatività, perché “l’unico contratto collettivo di settore sia emanazione della volontà della maggior parte dei lavoratori e dei datori di lavoro”.

 

PRONTA LA SECONDA BOZZA DELLA PROPOSTA DI LEGGE

La riforma della contrattazione collettiva, rappresentatività e diritto di sciopero procede spedita, avendo ormai esaurito la fase preliminare che ha portato alla stesura della seconda bozza di proposta di legge. Un lavoro importante e, visto il dibattito tra organizzazioni sindacali e associazioni di datori di lavoro, molto delicato, svolto con efficacia dalla Segreteria al Lavoro e dal consulente esterno in pochi mesi: l’Avvocato Alessandro Bugli è stato incaricato il 1 dicembre 2014 e già il 20 maggio 2015 è stata presentata la prima bozza di legge. Come ben rendicontato nella relazione che conclude la fase preliminare, consegnata in questi giorni alle parti, su quella prima bozza si è aperto un confronto serrato, che ha portato le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali ad esprimere le proprie osservazioni e avanzare le proprie proposte, perché venissero valutate e accolte o respinte. Come noto, la scelta iniziale è stata quella di mettere mano all’impianto legislativo del 1961: per l’esigenza di aggiornare la legge alla realtà attuale che, per dimensione e priorità è profondamente cambiata in cinquant’anni, ma anche per la consapevolezza che “proprio in periodi di difficoltà (quale quello appena percorso), si sono registrate tutte le inadeguatezze dell’impianto normativo esistente”. Razionalizzarlo, inoltre “è certamente un plus che può fungere da volano per attrarre imprenditori stranieri ad operare sul territorio (messi così a conoscenza in maniera inequivoca del contesto entro cui verranno ad operare e delle regole da applicare) o per chiarire ai nostri giovani onori e oneri dell’avvio di attività di autoimprenditoria”.

 

L’ERGA OMNES DEL CONTRATTO COLLETTIVO

“Il sistema attualmente vigente in materia di rappresentanza collettiva non risulta idoneo ad assicurare l’unicità e l’univocità della funzione normativa della contrattazione collettiva…”, scriveva nella sentenza del 9 aprile 2009, il Giudice delle Appellazioni Civili, prof. Lanfranco Ferroni. Come noto, infatti, “l’Ordinamento sammarinese – a differenza di buona parte delle realtà nazionali del Vecchio Continente – pone a fondamento delle proprie relazioni industriali un principio per il quale il contratto collettivo nazionale di lavoro deve necessariamente estendere i propri effetti all’intera categoria interessata (datori e lavoratori)”. Ma “è ammissibile la compresenza di più contratti collettivi per un determinato settore”, per cui si “rischia di porsi in contrasto con le esigenze di certezza poste a fondamento delle relazioni industriali”, esistendo la possibilità di dover scegliere le condizioni di miglior favore dai diversi contratti. “La scelta del legislatore del 1961, anche se ancora non ha trovato applicazione in aule tribunalizie, potrebbe essere pro futuro foriera di rischi e criticità che un Legislatore attento non può trascurare”. Per questo “la Segreteria di Stato ritiene necessario innovare il dettato della L. 7/1961, senza per questo snaturarne la portata e facendo salva l’efficacia generalizzata del contratto collettivo. Se, quindi, non si pone in dubbio la bontà dell’efficacia erga omnes, va evitato – rispetto a quanto accade oggi – che si possa giungere alla stipula di più contratti collettivi per il medesimo settore”. Il risultato è “una normazione per la quale il contratto collettivo nazionale (definito “di settore”) è uno, e uno soltanto. Sono state previste regole puntuali di partecipazione alla fase di contrattazione (partecipazione garantita alle Organizzazioni Sindacali e alle Associazioni datoriali registrate che contino tra i propri associati un numero minimo di lavoratori o datori operanti nel settore oggetto di negoziazione) nonché soglie di rappresentatività specifiche per la valida sottoscrizione dell’accordo”. Ovvero la “sottoscrizione del Contratto collettivo di settore da parte dell’Organizzazione sindacale o coalizione delle stesse maggiormente rappresentativa, alla quale risultino iscritti il 51% di Lavoratori occupati nel settore di riferimento e da un Associazione datoriale o coalizione delle stesse maggiormente rappresentativa, che rappresenta i Datori di lavoro iscritti, che occupino complessivamente il 51% di Lavoratori operanti nel Settore di contrattazione”. “Nell’ipotesi in cui non siano soddisfatti i requisiti di maggior rappresentatività” di cui sopra, è necessaria la “sottoscrizione del Contratto collettivo di settore da parte: di un’Organizzazione sindacale o coalizione delle stesse, maggiormente rappresentativa, alla quale risultino iscritti il 66% del totale dei Lavoratori occupati nel Settore di riferimento e iscritti ad una Organizzazione sindacale”. Se anche questa ipotesi non si verificasse, si procederà con i referendum. Una volta stilato il nuovo Contratto Collettivo di Settore, “ogni datore di lavoro sarà chiamato ad indicare all’Ufficio del Lavoro a quale settore debba essere ricondotta la sua attività produttiva o di servizio e, conseguentemente, fare applicazione del Contratto Collettivo stipulato per tale settore”. Prevista anche la contrattazione di secondo livello, il cosiddetto contratto integrativo aziendale che, “può regolare i rapporti di lavoro solo nei limiti in cui ciò sia coerente con i contenuti del Contratto Collettivo di Settore, senza possibilità di deroghe in pejus, salvo per la negoziazione in caso di crisi aziendale”.

 

RAPPRESENTATIVITÀ: ISCRITTI, NON ADERENTI

La rappresentatività non può essere certamente demandata a criteri non oggettivi e trasparenti, per cui la Segreteria al Lavoro ha deciso di basare tale principio su numeri certi, distinguendo “tra aderenti tout court e iscritti qualificati ai fini della registrazione del sindacato e del calcolo della maggiore rappresentatività ai fini della partecipazione al tavolo ufficiale della contrattazione e della possibilità di sottoscrivere validamente il Contratto collettivo nazionale di lavoro”. “Partendo, quindi, dall’imprescindibile premessa per cui chiunque è libero di aderire a quali e quante organizzazioni o associazioni voglia […] non può e non deve accadere che un medesimo soggetto sia conteggiato in termini di iscritto per più sindacati”. Per questo “la Segreteria è dell’avviso che a differenza dell’aderente dal punto di vista soggettivo, debba essere considerato iscritto […] colui che sia un lavoratore attivo o, diversamente, coloro i quali abbiano perso il proprio posto di lavoro involontariamente e stiano fruendo di misure di ammortizzazione sociale”. Non solo, egli deve “partecipare attivamente al finanziamento del proprio sindacato attraverso la corresponsione di una quota di iscrizione”. Per le imprese, invece, la discriminante è che siano “datori di lavoro”, quindi che abbiano alle proprie dipendenze almeno un lavoratore.

 

QUOTA D’ISCRIZIONE PER LA SOSTENIBILITÀ ECONOMICA

Quella del pagamento della quota per essere considerati iscritti e non solo aderenti è una delle novità più importanti del provvedimento, che ha trovato diversi ‘oppositori’. Segreteria e consulente hanno dovuto infatti chiarire il “fraintendimento per cui si afferma che la c.d. quota di servizio (di cui alla Legge n. 17/1968 e, successivamente, di cui alla Legge n. 70/2003) assolva integralmente la funzione di finanziamento pubblico delle Organizzazioni Sindacali e, quindi, la presenza necessaria per i soli “iscritti” (si badi, non per gli “aderenti”) di una quota di iscrizione condurrebbe ad un duplo, di fatto limitativo dei diritti dei lavoratori. Il ragionamento resta suggestivo, ma non convince”. Quota di servizio che non verrà cancellata, “a presidio dell’esistenza e sussistenza delle Organizzazioni esistenti e di quelle che potranno nascere”, ma razionalizzata e ripartita in base anche al numero di iscritti (una quota dell’80%) e non più solo per numero di sindacati, “per evitare che l’obbligo di versamento per gli “iscritti” della quota di iscrizione venga eluso, qualora la quota di iscrizione sia talmente bassa da rendere il meccanismo di autofinanziamento delle Organizzazioni praticamente inesistente (ritornando, così, alla logica del sindacato finanziato solo per il tramite delle quote di servizio)”. Così “si riesce ad evitare che i sindacati registrati finiscano per sostenersi economicamente solo tramite logiche di finanziamento (para) pubblico, mediante le sole quote di servizio (circa 2 milioni di euro l’anno, ndr), o aiutandosi attraverso il distacco di parte dei dipendenti pubblici dalla proprie occupazioni per ragioni sindacali”, che per il sistema pubblico assommano a oltre 800mila euro l’anno tra costi per i distacchi e le loro sostituzioni. “E’ necessario un cambio di prospettiva, le Organizzazioni Sindacali devono essere in condizioni di potersi mantenere e sostentare, evitando che i costi del loro funzionamento gravino sulla collettività. In questa prospettiva si comprende la necessità che almeno gli “iscritti” (dal cui numero dipende il diritto alla registrazione e il conseguentemente accesso al diritto alla ripartizione delle quote di servizio e al diritto ai distacchi di personale pubblico) partecipino a finanziare l’Organizzazione, nella speranza che nel tempo i costi pubblici per i distacchi e quelli per quote di servizio per la collettività di cui sopra possano andare a ridursi”. Autonomia che è auspicabile anche perché “un sindacato non indipendente dal punto di vista economico, rischia di diventare facile preda di interessi terzi”.

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