Home FixingFixing “Roberto Mancini? Tra i migliori allenatori d’Europa”

“Roberto Mancini? Tra i migliori allenatori d’Europa”

da Redazione

Marco Macina, suo compagno nel Bologna, sul debutto da CT: “Ci siamo conosciuti a 13 anni. Un ragazzo tranquillo, c’è un bel legame”.

Marco Macina calcio

 

di Alessandro Carli

 

La letteratura giornalistica sportiva si è occupata più volte di Marco Macina, enfant prodige del calcio non sono sammarinese ma anche italiano. Classe 1964, ex ala di Bologna (con cui esordì in seria A in Juventus-Bologna 2-0 del 22 novembre 1981) e Milan, oggi lavora per l’Ufficio del Turismo di San Marino. Roberto Mancini, suo compagno di squadra nelle giovanili della squadra felsinea alla fine degli anni Settanta in una recente intervista ha affermato: “Macina? Un fenomeno. Aveva le potenzialità di Messi”. Assieme al “Mancio”, Macina ha condiviso anche le nazionali giovanili italiane.

 

Sorpreso della scelta di Mancini al ruolo di CT della Nazionale maggiore?


“Roberto rientra tra i 7-8 allenatori tra i più quotati a livello europeo: ha allenato anche l’Inter e il Manchester City. Un allenatore completo, direi un manager all’inglese, che segue tutte le fasi. I risultati poi parlano per lui. Essere commissario tecnico della Nazionale è un fatto personale: l’ingaggio è più contenuto rispetto a quello che propongono i club ma il prestigio è altissimo. Naturalmente tra un allenatore e un selezionatore c’è grande differenza sia per quanto riguarda i ‘tempi’: un allenatore lavora con i calciatori quotidianamente, un commissario tecnico solo in alcuni periodi. Io credo comunque che abbia i numeri. Non è sempre detto che un grande giocatore – e Mancini lo è stato – poi diventi allenatore”.

 

Per il debutto sulla panchina azzurra il CT ha scelto il modulo 4-3-3.


“Ho sempre pensato che un allenatore si debba adeguare a quello che ha: sicuramente conosce i calciatori e, dopo aver valutato le caratteristiche, ha scelto il modulo più adeguato, quello in grado di valorizzare gli undici in campo”.

 

Sarebbe partito tra gli 11 titolari?


“Dal punto di vista tecnico Roberto disse che ero più forte di lui. Forse avrei giocato (sorride)… Avevamo ruoli diversi: lui era una mezza punta, io un attaccante di fascia. È un po’ che non ci sentiamo: prossimamente lo andrò a trovare, magari in occasione di uno stage”.

 

Come vi siete conosciuti?

 

“Dovevo fare un provino per l’Inter ma un’infezione non mi permise di andare a Milano. Il Bologna, qualche tempo dopo, ne fece uno. Fu una cosa complicata perché avevamo meno di 14 anni (entrambi sono nati nel 1964, ndr). Nonostante il problema dell’età, fummo presi entrambi. Passammo tre o quattro anni assieme: era un ragazzo tranquillo. Eravamo amici e andavamo d’accordo anche perché eravamo i più giovani a Casteldebole. Siamo cresciuti a Bologna, poi Roberto è andato alla Sampdoria. Io ho fatto tutta la trafila sino ad arrivare alla prima squadra Eravamo due ragazzini nell’orbita della prima squadra quindi spesso a contatto con gente molto più grande di noi. Quando si ha quell’età certe amicizie sono sincere, pulite, senza secondi fini. Fra noi c’è un bel legame”.

 

Negli Anni Ottanta da San Marino emersero due talenti: Marco Macina e Massimo Bonini. Poi più nulla…


“Io credo che il talento sia una cosa naturale: non lo alleni e forse non lo perfezioni. Ci devi nascere. Il talento, per me, si lega all’istinto. Sulla mancanza di calciatori sammarinesi in serie A dobbiamo pensare alle dimensioni del Paese, piuttosto ridotte. Non sono un allenatore e quindi faccio fatica a dare una risposta: non ho le competenze. Rispetto agli Anni Settanta e Ottanta mi sembra che il calcio internazionale sia cambiato: c’è sicuramente maggior organizzazione ma forse il talento viene ‘frenato’. Si punta più su altri fattori come la fisicità. La mia caratteristica era quella di saltare l’uomo e mettere la squadra nelle condizioni di avere un uomo in più in fase d’attacco. Ero l’uomo dell’ultimo passaggio, quello che si liberava del difensore con un dribbling”.

 

Marco Macina, giocatore ambidestro dotato di fantasia e imprevedibilità. Come Simone Verdi del Bologna?


“Anche lui calcia con entrambi i piedi. I ruoli però diversi: lui è un trequartista che si muove tra le linee, io ero un’ala sinistra”.

 

Ha seguito la finale di Champion’s League vinta dal Real Madrid?

 

“Zinedine Zidane è un predestinato. In merito alla partita, credo che la differenza l’abbia fatta anche la panchina. È lì che si misura la forza di una squadra. Forza anche economica intendo”.

 

Molti ex calciatori hanno intrapreso la carriere dirigenziale oppure quella di commentatori televisivi.

 

“Nel calcio ci vuole continuità: appena uno attacca le scarpe al chiodo, se vuole rimanere in quel mondo, è importante che entri nello staff o segua i corsi per diventare allenatore. Non ci si può permettere il lusso stare fermi: le strategie di una squadra sono simili a quelle delle aziende. Se non sali sul treno giusto al momento giusto è poi tutto molto più complicato”.

 

Chi è stato il giocatore più forte con il quale ha giocato e l’avversario che ricorda tra i più tenaci?

 

“Al di là dei nomi più noti, ricordo ancora oggi Antonio Talevi, mio compagno di squadra nell’Ancona. Proveniva dalla primavera della Roma. Non è esploso ma dal punto di vista tecnico aveva un lancio millimetrico: ti metteva il pallone lì dove doveva arrivare. L’avversario più forte? Ricordo un Parma- Sampdoria. Parto da centrocampo, salto Pietro Vierchowod. Alzo la testa e rallento in prossimità dell’area di rigore per vedere a chi passare il pallone e lui era riuscito a rimontarmi”.

 

Il Milan è stato anche Franco Baresi.

 

“Un buon ragazzo e un difensore molto forte, uno dei migliori al mondo. Lo vedevo anche in allenamento”.

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