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Visto per voi: “Awakening” di Federico Mecozzi al Verucchio Festival

da Alessandro Carli

Le corde che si porta tra la spalla e le dita le fa vibrare, le sfiora e le accarezza per poi scuoterle, come una cascata d’acqua, o le stelle filanti di una festa.

Mecozzi ph. Ivan Tiraferri

di Alessandro Carli

VERUCCHIO (RN) – Il luogo è lo stesso, Verucchio. Due le differenze, moltiplicate per gli eventi che sono accaduti. In autunno la Rocca, spazio delizioso che lo ha visto esordire, molti anni fa, al fianco di Ludovico Einaudi. Per l’occasione, l’artista offrì al pubblico un “aperitivo” del suo primo album, “Awakening” (Warner), uscito a gennaio del 2019 e presentato poi nella bomboniera di Rimini, il teatro “Galli”, con i biglietti andati in sold out nel giro di un respiro per entrambe le repliche. Poi il palco di Sanremo: nel febbraio 2019 difatti ha partecipato al 69esimo Festival come direttore d’orchestra per il cantautore Enrico Nigiotti, interprete del brano “Nonno Hollywood”.

Parallelamente agli impegni con Einaudi, Federico Mecozzi (ph. Ivan Tiraferri) assieme alla sua band sta promuovendo il suo “risveglio” (sottile l’ossimoro: lui, in realtà, non si è mai addormentato). E la tappa nella sua Verucchio – gli organizzatori lo hanno scelto per aprire la 35esima edizione del Festival esattamente il 18 luglio nel piazzale davanti alla Chiesa della Collegiata – è stata la conferma non solamente del suo talento (se Einaudi l’ha voluto accanto a sé a suonare il violino quanto era ancora minorenne qualcosa di prezioso e straordinario lo deve avere) ma anche della crescita dell’esecuzione del vivo delle tracce contenute nel disco.

Davanti a una piazza davvero gremita Federico ha preferito far parlare il suo strumento, quel violino che canta con la voce suadente e incantatrice della donna. “Quando la musica che suonerete sarà in grado di commuovere fino alle lacrime – scrive Maxence Fermine -, vi renderete conto dell’inutilità della vostra voce”. Difficile sapere se il musicista romagnolo ha letto “Il violino nero”: di certo quelle corde che si porta tra la spalla e le dita le fa vibrare, le sfiora e le accarezza per poi scuoterle, come una cascata d’acqua, o le stelle filanti di una festa.

Peccato che una parte del pubblico – piccola ma particolarmente attiva – abbia preferito concentrarsi a fare le foto e i filmati. Non ci si deve sorprendere però, la poca educazione (parlare di maleducazione è eccessivo) dettata dalla necessità di “fare vedere agli altri” gli attimi trascurando invece l’importanza di “vivere un evento” (e magari raccontarlo a parole: troppa fatica?) è diventata pratica comune. Possibile non riuscire a fare a meno, per un’ora e un quarto – tanto è durato il concerto – dei social? Possibile togliersi il piacere di condividere davvero qualcosa di bello con la persona che è al tuo fianco?

Perché di bellezza, raffinata e cristallina, si deve parlare: dalla delicata e intima “Kinetic” all’allegra e saltellante “Birthday”, ripresa poi, o forse meglio accennata come sequenza di note, in “Desert dance”. In scaletta poi morbide “Last June” e “Lost tales”, ma anche “Neptunus”, “Spring song”, “Blue reverb”: tutti tasselli di un mosaico indovinato, che nasce negli strumenti e scende il platea come una ventata calda e fresca, un risveglio che si annuncia con un sorriso rivolto verso il futuro.

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