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Visto per voi a teatro: “La casa di famiglia” allo Spazio Tondelli

da Redazione

Una bottiglia di prosecco pieno di bollicine: dà alla testa, nell’accezione più nobile del termine, unendo risate e spleen.

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di Alessandro Carli

 

RICCIONE – La struttura sociologica di indagine è abbastanza simile a quella che l’ottimo Fausto Paravidino ha tratteggiato – con acume e capacità straordinaria – in “Gabriele”. Ma se ieri (15 anni fa, almeno) il nucleo messo sotto i riflettori dal drammaturgo di Zena era quello di un gruppo di “parenti universitari” alle prese con un “figlio condiviso”, ne “La casa di famiglia” – gustosa commedia scritta Augusto Fornari (che ha firmato anche la regia), Toni Fornari, Andrea Maia, Vincenzo Sinopoli e che ha visto sul palco dello Spazio Tondelli anche il “sanremese” Simone Montedoro – l’asticella del tempo si alza sensibilmente, e di conseguenza anche l’età della storia.

“La casa di famiglia” – poco meno di 90 minuti di piacevole apnea, quindi giustamente senza intervallo – è una capriola di Pulcinella, la ruota di un pavone, un’esplosione sana di comicità profondamente consapevole e che già nella scelta dei nomi dei personaggi sottende un universo “altro”, che ha radici conficcate come cardi nel terreno dell’arte più nobile.

Se i registri scenici degli attori sono tutti tarati su una contagiosa vis comica che abbatte la quarta parete e arriva come un’onda sino all’ultima fila della platea, più celato e raffinato è, pirandellianamente, il secondo spettacolo: il metateatro partorito da Augusto e Toni Fornari, Andrea Maia, Vincenzo Sinopoli apre un abisso semantico nei nomi dei personaggi. Giacinto, il giacinto, è un fiore ma è anche una metafora della morte e della rinascita della Natura (ovviamente nello spettacolo non ci sono decessi reali ma solo auspicati dai figli del genitore in coma per questioni di eredità); Oreste e il suo ruolo di vendicatore della morte del padre Agamennone; Alex e Fanny (meraviglioso omaggio al celebre film di Ingmar Bergman del 1982, quello dove nel finale dice che “tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”). Uno sciame inquieto che porta alla rimodernizzazione del mito classico in chiave novecentesca (come hanno fatto, tra gli altri, anche Alberto Savinio e Paolo Puppa) che si distacca dal dramma del teatro antico per trovare una vita nuova nella contemporaneità. E nuova, fresca e frizzante lo è davvero: quattro figli, diversissimi tra loro, si ritrovano nella casa del padre (Roberto Mantovani), da cinque anni in coma. Giacinto, Oreste, Alex e Fanny, in maniera più o meno collegiale, decidono di vendere l’immobile (la casa, non il padre) per pagare debiti e spese varie a un notaio. Quando tutto sembra essere andato in porto, il padre si sveglia e torna nella sua dimora. In un nanosecondo la prole cerca di “riallestire” l’habitat (chiaro è il riferimento a “Enrico IV” di Pirandello) per evitare che l’uomo si accorga del cambiamento e abbia traumi emotivi fatali. Nella frenesia emergono i ricordi del passato, gli attriti tra i due gemelli (Oreste e Giacinto), il peterpanismo sentimentale di Alex, la poetica verginità di Fanny (Laura Ruocco), che esce con il notaio ma anche alla fine cade tra le braccia dell’amato libraio, sogno innamorato lungo una vita.

Il padre, resosi conto del tempo che scorre e dei cambiamenti (micidiale, comicamente micidiale, la sostituzione del busto di Beethoven con quello del Duce addobbato con una parrucca) decide di vendere separarsi dai ricordi legati alla moglie che non c’è più.

“La casa di famiglia” è una bottiglia di prosecco pieno di bollicine: dà alla testa, nell’accezione più nobile del termine. Unisce risate e spleen. Non fosse altro che per quella voce di Lucio Dalla che canta “La sera dei miracoli” quando Fanny scopre l’amore dei corpi che si incontrano.

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