Home categorieCultura Visto per voi a Santarcangelo Festival 2050: “Energheia” e “Family affair”

Visto per voi a Santarcangelo Festival 2050: “Energheia” e “Family affair”

da Redazione

Più rivolto a se stessa che al pubblico, l’assolo della danzatrice Paola Bianchi piace soprattutto nelle figure a terra, più efficaci rispetto a quelle eseguite in piedi.

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di Alessandro Carli

 

SANTARCANGELO (RN) – Paola Bianchi attinge alla filosofia antica per celebrare il presente. Lo spunto iniziale – ma solo nel titolo dell’assolo andato in scena “Nello spazio” sotto le stelle di Santarcangelo Festival 2050 “con la mascherina” – è dei più nobili: Aristotele. Il suo “Energheia” (ph. Valentina Bianchi) però abbandona velocemente il “padre” e disegna traiettorie autonome, gestuali che, partite dagli occhi e dalla memoria di 40 persone, alla fine ritorna a quella “capacità” greca di compiere una determinata attività. Se il percorso di avvicinamento allo spettacolo ricalca in parte le idee a(r)tistoteliche, quello che avviene in scena è una netta e ossimorica frattura: la forma, ci dice l’artista, è appunto atto (“enèrgheia”) e quindi movimento del corpo.

Sul palco en plein air del Parco Baden Powell (ottima l’idea degli organizzatori della kermesse clementina di anestetizzare almeno parzialmente i limiti della Covid-19 portando all’aperto gli spettacoli in programma) Paola Bianchi ci sta per circa 30 minuti, il tempo perfetto per prendere la linfa: arriva, si toglie le scarpe e lascia che il suo corpo da burattino azzardi i movimenti sincopati che seguono le note elettriche della musica dal vivo. È un lavoro sugli spigoli e non sulle curve, quello di Paola, più criptico rispetto ad alcuni assoli visti in passato. Più rivolto a se stessa che al pubblico: brava è brava, la Bianchi, soprattutto nelle figure a terra, più efficaci rispetto a quelle eseguite in piedi.

Scenicamente lineare ed elementare – il che non vuol dire che alle spalle non ci sia stato un ottimo lavoro drammaturgico e di scrittura, anzi – è invece “Family affair” di ZimmerFrei, “il fulesta al trebbo”: sul fondale del palco troviamo un telone che proietta immagini di famiglie santarcangiolesi. La telecamera si sofferma sui singoli, seduti da qualche parte – chi su una sedia, chi sui sassi del fiume – ad occhi chiusi. Sul palco si alternano bambini, adulti e giovani che a turno “leggono” al microfono i pensieri dei protagonisti: come si sono incontrati, come hanno messo su famiglia, le difficoltà incontrate. E il canto finale in lingua africana – forse – diventa la cerniera e la risposta alle fratture della società: si può vivere uniti, nella musica.

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