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Eppure, qualche volta, basterebbe rallentare

da Simona Bisacchi

Come è necessario dare il massimo quando si hanno le forze e le competenze per portare avanti le proprie mansioni, così è indispensabile fermarsi quando un dolore o il sovraccarico di stanchezza arrivano al punto di toglierci lucidità e pazienza.

“Bisogna concedere riposo alla mente, perché dopo si ritrovi più rinfrancata e vivace” suggeriva Seneca nel suo “De tranquillitate animi”.

I continui stimoli a cui ci sottoponiamo ci fanno credere che l’unico modo per ricaricarsi sia distrarsi. Ma a volte sarebbe molto più proficuo riposare. Riposare il corpo, certo. Ma anche la testa, che non smette mai di organizzare, anche di notte, mentre dormiamo, o – purtroppo – invece di dormire. Organizza la giornata di domani, gli impegni dei figli, le attività del fine settimana. A forza di concentrarsi sugli orari da rispettare perché in un’unica giornata ci stiano lavoro, svago, spesa, telefonate. A forza di ingegnarsi per trovare il modo di mettere da parte per almeno un’ora tutti i problemi, buttandosi in sport, videogame e serie tv. A forza di tentare di essere presenti a tutto, e tutti, tranne a sé stessi. La testa non è più in grado di mettere in pratica ciò per cui sarebbe nata: pensare, riflettere, scorgere la bellezza che continuamente le viene proposta ma ormai ignora.

“Il poeta chiede solo di levare la propria testa fino ai cieli. È il logico che cerca di spingere i cieli dentro la propria testa. Ed è la sua testa a spaccarsi” spiega Gilbert Keith Chesterton (in “Ortodossia”).

Eppure basterebbe rallentare.

Ammettere che a volte non si sa più verso cosa si sta correndo e questa inconsapevolezza invece di farci decelerare ci spinge a correre ancora più forte, più veloce, nell’irrazionale speranza che venga chiaro il senso.

Sarebbe più utile camminare: “Nella passeggiata, dall’esame del filo d’erba lo sguardo si alza e scorge la prateria; dall’arbusto, il bosco; dal volo del piccolo uccello, l’immensità che avvolge il cosmo. Dalla piccola opera buona, la bontà; dalla piccola ingiustizia, il male del mondo” (Gustavo Zagrebelsky, “La lezione”).

Prendendoci cura del nostro piccolo mondo privato impariamo nuovi gesti, più incoraggianti, più formativi, capaci di ritemprare – invece che distruggere – le nostre forze.

Dedicarsi a una conversazione, invece che rendere ogni incontro un dibattito, che non porta idee né informazioni.

Prendersi un po’ di tempo per pronunciare un grazie che andrebbe proprio detto, invece di polemizzare.

Trovare lo spazio per una confidenza, che vorremmo fare o che dovremmo ascoltare.

Mettere in pratica dei gesti discreti, intimi, ma di grande impatto armonico, capaci di ridare significato a tutte quelle azioni quotidiane, che portiamo avanti per abitudine, senza più coglierne il valore. Senza nemmeno capire se ancora ci interessano per davvero.

Trovare un ritmo nuovo, inatteso, attraverso gesti a cui non davamo più importanza.

Questi cambiamenti – all’apparenza anonimi – sono la strada per arrivare a discernere tra reale e ingannevole, tra le nostre motivazioni e le aspettative altrui, in modo da decidere dove impegnare le nostre ore, i nostri sforzi, la nostra testa. Per arrivare a fine giornata stanchi, sì, ma contenti.

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