Strana creatura l’essere umano. Più la situazione si fa complessa più la complica ulteriormente, nel tentativo di risolverla con ragionamenti e ipotesi.
Siamo fatti così. Nei momenti cruciali tendiamo a lasciarci sfuggire di mano lo spirito pratico, e anche quel buonsenso – che ci hanno insegnato le nonne – che non è una vera e propria saggezza ma può dare l’equilibrio necessario a superare un problema senza fare troppi danni.
Ci può aiutare a capire se siamo in grado di parlare senza rancore e siamo quindi aperti a un dialogo, parola facile da sbandierare ma ardua da realizzare. O se, invece, è il momento di scegliere il silenzio, perché senti che ogni discorso potrebbe essere frainteso: non è colpa di uno o dell’altro, è solo che a volte le circostanze vanno fatte decantare come il vino, per ridurre l’anidride carbonica, aumentare l’ossigeno e tornare a respirare.
Nella vorticosa coreografia delle giornate, ogni passo ha un suo valore, va scelto con cura. Ci sono balli in cui è fondamentale fare un passo indietro, e acrobazie in cui non ci si può sottrarre da un salto mortale.
Secondo Goethe “Il buon senso è il genio dell’umanità”.
Alessandro Manzoni, ne “I promessi sposi” ci ricorda che “Il buonsenso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
E Arthur Schopenhauer sottolinea che “Sono poche le persone dotte in possesso di quel sano buonsenso che spesso riscontriamo in quelle incolte” (in “Parerga e paralipomena”).
È dal buonsenso che nasce la parola “scusa”, che andrebbe pronunciata solo se quello sbaglio non vorresti farlo proprio più. E anche la parola “grazie”, che andrebbe usata non solo quando va tutto bene, ma anche quando sembra che vada tutto male eppure siamo ancora qui e abbiamo la possibilità di combattere, e imparare, e cercare ancora un senso, e capire che le giornate di piombo portano insegnamenti d’oro.
Quanti gomitoli intricati si scioglierebbero se dimostrassimo la nostra attenzione, il nostro riguardo, non solo a parole, ma con piccoli gesti genuini.
Un invito a fare due chiacchiere su una panchina soleggiata.
Un bigliettino con una frase incoraggiante.
Un libro che mi è piaciuto così tanto che vorrei fartelo leggere.
E quando le posizioni sembrano inconciliabili sfoggiare una carezza, perché anche se siamo su due rive opposte ci piacerebbe tanto continuare insieme, e magari cammina e cammina il fiume si fa ruscello e quelle due sponde anche se parallele si avvicinano.
Ma c’è un altro importante segreto, che ci hanno lasciato le nonne, tramandato di generazione in generazione: mai credere di avere la verità in tasca. Un segreto troppo poco utilizzato. Poco considerato. Scaduto in un banale cliché. Perché siamo così impegnati a dimostrare che il nostro punto di vista è più elevato, giusto e coerente. Così impegnati a voler essere più interessante, arguto o veggente di chi abbiamo di fronte, da non essere più capaci di ammettere che – nelle nutrite differenze che ci distinguono – possediamo tutti una buona dose di ignoranza. E di meraviglia.