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Le Olimpiadi, un romanzo che parla un po’ di te

da Simona Bisacchi

Puoi non essere appassionato di uno sport in particolare.

Puoi anche chiederti perché ci siano persone che dedicano – e sacrificano – la loro vita per diventare atleti.

Ma quando arrivano le Olimpiadi ti ritrovi a mettere la sveglia alle tre di notte per assistere alla finale di dressage, che fino a cinque giorni prima non sapevi nemmeno fosse una disciplina.

I Giochi Olimpici sono così. Risvegliano un improvviso patriottismo, un coinvolgimento emotivo.

Sono un romanzo che parla un po’ di te.

Ti alleni anni e anni, in modo duro e costante, per cercare di ottenere un risultato, sapendo che forse non arriverà mai ma consapevole che non puoi sottrarti dal combattere per ottenerlo, perché non saresti in pace con te stesso.

“La cosa essenziale nella vita non è conquistare ma combattere bene”. Questa frase – attribuita a Pierre De Coubertin (1864 – 1937), fondatore delle Olimpiadi moderne, fu probabilmente pronunciata dal vescovo Ethelbert Talbot, durante un’omelia agli atleti. Ma il messaggio non cambia.

Se combatti solo per il successo, per ottenere il trionfo, la tua lotta si riduce a poco più che una roulette russa, perché ci sarà sempre qualcuno più bravo di te e sarà a pronto a sconfiggerti.

Ci sarà sempre qualcuno che non crederà in te e sarà pronto a scartarti.

E ci sarai sempre tu che dovrai andare avanti, con una corona di alloro o di spine sulla testa. E l’alloro non ti preserva dalle successive sconfitte. E le spine non fanno di te un fallito.

Non guardiamo le Olimpiadi per sentirci partecipi di una medaglia al collo. Le guardiamo per fare il tifo per atleti che sono sì eccellenze nazionali ma di cui spesso si ignora l’esistenza e il talento, perché praticano sport considerati “minori”. Non hanno guadagni stratosferici e – se non vengono ingaggiati a “Ballando con le stelle” – a ottobre tornano a essere già perfetti sconosciuti. Eppure vanno avanti, con tutta la dedizione e l’impegno che si deve al proprio lavoro.

Guardiamo le Olimpiadi per ricordarci che una medaglia ha sempre due facce, anche se è d’oro zecchino. Puoi salire sul gradino più alto delle Olimpiadi per cinque volte, stabilire 18 record mondiali, come l’atleta ceco Emil Zatopek (1922-2000), e passare poi il resto della vita a fare il minatore in una cava di uranio, per aver sostenuto le tue idee, tanto diverse da quelle del regime.

Guardiamo le Olimpiadi perché per quanto bravi, e belli, e potenti, quegli atleti non sono così diversi da noi. Soprattutto quando scopri storie come quella della maratoneta svizzera Gabriela Andersen Schiess, che a 39 anni nel 1984 è stata accolta da un’ovazione quando è arrivata – ultima! – disidratata, imbarazzata e con il corpo che non rispondeva più ai comandi, claudicante nell’ultimo giro di pista senza accettare alcun aiuto pur di non essere squalificata.

Era ultima, che differenza poteva fare essere eliminata?

Una differenza lunga più di 40 chilometri, fatti di corsa, sotto il sole che spinge le temperature a 32°. La differenza di uno stadio che ti accoglie e ti sostiene, perché tra quei settantamila spettatori tutti in piedi ci sono persone che sono arrivate senza più forze e cariche di paura a traguardi irraggiungibili, e tanti altri dovranno passarci. E se per un momento – per quei cinque infiniti minuti serviti per fare gli ultimi 400 metri – puoi essere per loro un esempio, un’ispirazione, vale tutta la fatica del mondo.

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