Home AttualitàCultura Visto per voi al “Fabbri”: “Trascendi e sali” di Alessandro Bergonzoni

Visto per voi al “Fabbri”: “Trascendi e sali” di Alessandro Bergonzoni

da Alessandro Carli

Un TSO immediato, sfolgorante, faticoso – ma se le fatiche fossero queste, evviva le fatiche – lì dove l’acronimo non sta per “Trattamento Sanitario Obbligatorio” ma per  “Trascendi e Sali” (Orsù, che però non è un orso sardo ma un invito). E l’invito allo spettacolo di Alessandro Bergonzoni il pubblico del teatro “Diego Fabbri” di Forlì l’ha accolto a mani aperte (a_per_te?), nonostante la data desueta (seconda metà di giugno, un periodo in cui, di norma, i sipari se ne stanno chiusi ma il Covid ci ha portato anche a rimescolare i cartelloni e gli appuntamenti serali): troppo ghiotta l’occasione per (ri)vederlo in scena, troppa “tantezza” per rinunciare a farsi trasportare nei suoi mulinelli di calembour, nei vortici acquatici e acquosi di parole, immagini, delizia per la mente, le orecchie e la mente (non è una ripetizione: sono due difatti le parti).

Per la platea che ha seguito l’ingegnere bolognese inventore della “pensostruttura” (anche se in realtà è laureato di Giurisprudenza, ma esistono anche quelle ad honorem, e sarebbe il caso di conferirgliene almeno tre alla settimana, una di giovedì, una di sabato e una di giovedì visto che proprio di giovedì ha portato il suo spettacolo a Forlì) servono i sali, quelli che vengono realizzati magicamente dai chimici: sali non per salire – lui è irraggiungibile, inutile provarci – ma per rinvenire.      

Ma è nel titolo del suo assolo che si svela parte del viaggio: tra “scendi” e “sali” difatti c’è un interstizio di movimento. E che sia visivo – all’inizio, del “Bergo”, si vedono solo i piedi – o lessicale, poco importa: lui è una cascata (ma non si fa mai male, lo diciamo per rassicurare i lettori) di parole serrate, a ritmo “apneico”: ridi, poi pirandellianamente, in qualche modo ì, ti vedi allo specchio (di Alice) e non ridi più perché nel frattempo ti piovono addosso altre battute e se ridi troppo, rischi di perderle o che ti scivolino via (del resto, succede anche quando provi a trattenere l’acqua nelle mani). Quello che si staglia agli occhi del pubblico forlivese è un artista grande per statura e sinapsi, un uomo padre che fa ridere ma anche fa riflettere, soprattutto quando parla della famiglia. Tutti sanno come si chiama un figlio che perde un padre, “orfano”, o un uomo che perde la moglie (“vedovo”), ma nel lessico italiano non ce n’è una in grado si definire e sintetizzare un padre o una madre che perdono un figlio. È esattamente nelle parole che mancano, e in quelle mancate, che si trova il cuore multiplo di questa suo ennesimo vertice scenico: si sale e si scende, ma senza muoversi. Si posta l’attenzione, la testa e quello che contiene, sempre in affanno, sempre di corsa a inseguire quello che dice, a cercare di capire, o perlomeno a cogliere, i frammenti della polvere di stelle.

Eppure, quanta fatica! Ti tocca stare lì con il pensiero e con il retino per le farfalle, e inseguire, catturare, ascoltare quell’arcobaleno vertiginoso di storie intrecciate ad altre storie, infilate come perline in un filo d’argento (ne basta uno, anche preso dalla lunga chioma di Alessandro).

Poi i bis(lacchi, tecche, ogni?), che poi non sono bis ma il carrello degli (dolci) amari: il primo è sceso a piombo, il secondo è – per chi ha già lo visto in scena (in “Nessi”, per esempio) – l’uccelliera, i versi degli volatili. “C’è nessuno?” è la domanda che pone sempre al buio un volatile bergonzoniano. Poi si accendono i fari in sala. “Ci siete voi” si autorisponde. E luce sia.  

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