Home categorieCultura Visto per voi al teatro Titano: “Alfonsina Panciavuota” di Teatro Dellarmadio

Visto per voi al teatro Titano: “Alfonsina Panciavuota” di Teatro Dellarmadio

da Redazione

Diretto con eleganza e senza fronzoli da Antonello Murgia, lo spettacolo che vede sul palco Fabio Marceddu è una lama nella memoria che porta un messaggio di speranza.

Marceddu ph Pioggia 2

 

di Alessandro Carli

 

SAN MARINO – Un assolo potente, una voce che rimbalza e che si eleva verso l’universalità. Con “Alfonsina Panciavuota”, il monologo scritto, interpretato e vissuto da Fabio Marceddu (foto di Davide Pioggia) e passato sulle assi del teatro Titano il 26 novembre in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, Teatro Dellarmadio apre il sipario sull’infinito dramma dell’ossessione malata, dell’infanzia rubata, dei sogni soffocati. Attraverso un’interpretazione dove tocca magnificamente tutte le note e vive tutte le figure femminili e tutti i figli della paura, l’attore fa esplodere il lacerante l’urlo di un’impotenza tutta italiana, antica ma allo stesso tempo recente e estremamente attuale. Marceddu non si limita a riempire la scena: la devasta, vivendo tutte le sfumature della scala vocale umana – dalla sanità alla follia sino alla speranza – dipingendo l’intero pentagramma di un inno sublime che ha l’odore della terra sarda, il rumore della solitudine, il dramma di una ragazzina, il sudore delle bestie. Alfonsina appunto, classe 1932, ultima di nove figli, venduta dai genitori, per povertà a un proprietario di una miniera, Caterino Spinetti, e alle sue tre sorelle zitelle Maria Pia, Maria Rosa e Maria Dolores, che la fanno “(ab)usare” per quattro anni. Siamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale: per Caterino e per il parroco, don Oliviero, è lo sfogo degli istinti sessuali animaleschi, una schiava tra le schiave di una mentalità tribale, terrigna, che prende senza chiedere.

Alla fine Alfonsina rimane incinta di Spinetti. Nel suo grembo cresce una creatura dolorosa e non voluta che piano piano inizia ad amare anche grazie a Efisio, un minatore-sindacalista che lavora nell’attività di Caterino e che è in testa alla contestazione in quanto il proprietario non è puntuale con i pagamenti degli stipendi. Il ragazzo si innamora di lei: accetta il figlio illegittimo e le dona altre due bambini.

Un testo dolente, quello raccontato, che ci sbatte in faccia tutta la violenza e la crudeltà della vita di una donna come un oggetto, abusata, sterilizzata, umiliata e rinchiusa. Una vita di punizioni non capite, di violenze, di amori tra disperati in una terra altrettanto disperata.

Con una scrittura che si muove tra iperrealismo e surrealtà, Fabio sussurra senza mai alzare la voce quella sua rabbia di non riconciliata nei confronti della società. Lo fa mostrando umana pietà e tenerezza nei confronti di un personaggio tanto sgangherato quanto autentico nel suo dolore.

Una storia sconnessa e dolorosa, fatta per lo più di botte e sopraffazioni, di carità pelosa e di celle d’isolamento, soprattutto mentali. 

Diretto con eleganza e senza fronzoli da Antonello Murgia – Fabio Marceddu indossa una tunica nera e la scenografia è ridotta a un telo, una bambola di pezza alzata verso il cielo, un velo scuro e tre fazzoletti rossi come il sangue e poco altro – lo spettacolo è una lama nella memoria che porta un messaggio di speranza: nonostante la galera “fisica” e il semianalfabetismo, Alfonsina comunque trova l’amore e i sorrisi, la forza di una terrigna energia, di una speranza che si fa alba, luce, calore. 

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