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Santarcangelo “In the grotto”: recensione della musica di Giuseppe Righini e Jonas David

da Redazione

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Incroci di suoni umidi come pioggia, incroci di sogni fugaci come locomotive: mille note che colano dal soffitto, e perforano la notte; note che rimbalzano nell’umidità, e si impastano – o meglio: giocano – con la voce.

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di Alessandro Carli

 

SANTARCANGELO – C’è sempre una grande emozione – quelle mani che ti stringono la pancia – quando torni per la seconda volta in un luogo che ti ha visto fare l’amore con la musica. Giacere con le note nella notte santarcangiolese, specie se quell’incontro di sensi avviene in una grotta (quella della famiglia Teodorani), ha la bellezza di un sfiorare con le dita quell’alchimia che nasce quando il cielo e gli orizzonti hanno il colore e l’odore del tufo. In principio fu Teo Teardo, durante un Festival di Santarcangelo di qualche anno fa: un artista che ti butta lì le sonorità, e ti porta lontano, sino sulla cima dei tetti delle città. Ieri, il 18 aprile, la seconda discesa nelle viscere ammuffite del borgo clementino: “In the grotto” (forse un collettivo, di certo un gruppo di persone che ama donare l’arte) ha chiamato a suonare una conoscenza del territorio (il bravo Giuseppe Righini) e Jonas David (nella foto di Valentina Manduchi), un musicista tedesco che, assieme alla sua band, merita rispetto. Due ore grottesche – in questo, la lingua italiana è precisa – per due modi di sentire la musica abbastanza diversi: a Righini il compito di togliere un po’ di umidità dall’insolita location (nella grotta Teodorani si odorano ancora le caciotte e il vino): una manciata di pezzi (due dell’ultimo album, “La luce del sole alle sei di pomeriggio” e “Anima d’animale”; due del primo album, “Ninna nanna del mare in tempesta” e “Bianca”, a cui ha aggiunto due cover, una delle quali un pezzo di Syd Barrett), per far capire al pubblico che quella non sarebbe stata una serata normale. Jonas David e il sui gruppo ha spiegato – nella voce cantata e nel suono – il significato di un viaggio nella pancia della terra. Un viaggio di 80 minuti, che unisce il cantautorato dei testi a un’interessante ricerca dei suoni: canzoni lunghe (lunghe come alcuni brani dei Dire Straits, anche se il genere è diametralmente opposto), che corrono sulle chitarre e sulle percussioni. Jonas David entra in scena scalzo, guarda il pavimento, e canta. Canta perché la sua voce è meravigliosa, graffiante e delicata, che ti scivola dentro, e non ti abbandona. Perché quella voce lì, che si alterna tra i microfoni e l’aria della grotta, ha il dono del saper raccontare. Del portare lontano. Lontano nel passato – alcuni passaggi avevano la purezza cristallina di Nick Drake, altri rievocavano le sonorità attuali dei Sigur Ròs -, ma allo stesso tempo in quel palco scavato del cuore della Romagna. Il segreto, al di là del talento degli artisti, è nel luogo. La voce e le note, prima di arrivare alla platea, subiscono un processo chimico straordinario: si inzuppano di umidità. Incroci di suoni umidi come pioggia, incroci di sogni fugaci come locomotive: mille note che colano dal soffitto, e perforano la notte; note che rimbalzano nell’umidità, e si impastano – o meglio: giocano – con la voce. Due ore nella grotta Teodorani, mentre la vita, distratta, si rincorre sotto il cielo notturno della Riviera.

 

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