Dieci anni miscelati, ridotti come fanno in cucina i grandi chef stellati, da non confondere però con un “canto del cigno”: gli Oblivion, nella tournée per i 10 anni di storia hanno fatto tappa al Bonci di Cesena il 21 dicembre (replica il 22 dicembre alle 21) per riscaldare il cuore del pubblico e hanno messo in chiaro di essere vivissimi e vegetissimi e non hanno la benché minima intenzione di smettere, anzi (dovessero mai farlo, occorrerà raccogliere 500 mila firme e chiedere una Legge che li fermi. Il primo nome nella petizione sarebbe il mio).
Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli (foto di Claudia Rocchi), diretti da Giorgio Gallione, hanno scelto un nome che per chi li ha già visti in scena dice molto: “Oblivion Rhapsody” non può che rimandare al pastiche tra la musica del pezzo dei Queen e il testo di “Fatti mandare dalla mamma” di Gianni Morandi.
Nelle pièce frastagliate e spesso volutamente scollate (che meraviglia!) che innervano i 90 minuti di mise en scene ritroviamo il cabaret più alto e il cafè chantant, satira tagliente (di costume) e calembour di parole, che giocano, vengono strizzate per poi – come un pupazzo di gommapiuma – tornare alla forma iniziale.
Sono quadri graffianti, quelli che gli Oblivion portano a teatro: a sprazzi Monthy Pyton, volutamente gaberiani, certamente preparatissimi (sia vocalmente che fisicamente), i fab five hanno mandato in apnea (di risate) la platea tra chicche non-sense, bizzarrie e assurdità.
Un’alchimia difficile da descrivere: qualcosa che si cerca di inseguire rimanendo immancabilmente travolti dal ritmo, dalle risate e dalla densità di riferimenti musicali e culturali che gli Oblivion concentrano nei loro pezzi. Sul palco del Bonci si parte con la versione bonsai de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in cui appaiono anche le rivisitazioni di “Ti amo” di Umberto Tozzi e di “Agnese” di Ivan Graziani, poi una capriola “mimica” di un purpurrì di canzoni (“Non me lo so spiegare” di Tiziano Ferro, “E tu come stai” di Claudio Baglioni” e “E penso a te” di Lucio Battisti), ma c’è spazio anche per una “Ave Maria” in versione discomusic anni Settanta. Tutto quello che una persona comune non può immaginare quindi: citazioni e mimica, sketch esilarati, canzoni e soprattutto vivacità per la mente: affreschi che manderebbero in brodo di giuggiole anche il gatto del Cheshire di Lewis Carroll.
Gli Oblivon sono una manna per la mente, una fonte fresca di sano divertimento, privo di volgarità: esiste ancora la comicità, lontana da quella televisiva e rumorosa, fatta di artisti che squittiscono. Sono un miracoloso filo in equilibrio, sospeso sulla comicità più sincera. La storia del rock in 5 minuti, il bis della serata del 21 dicembre, è solo l’ultima guarnizione di una torta esplosiva. Ma poi, come rimanere impassibili davanti a una vocalist che canta solo le vocali e che si alterna a una consonant che invece emette solo consonanti? (Per chi non c’era: hanno eseguito “Quello che le donne non dicono” nella versione di Fiorella Mannoia). O a un loro cavallo di battaglia che entrerà negli annales del teatro: “Teorema” di Marco Ferradini in versione vinile, con i naturali “inceppamenti” prontamente rimessi di riga con un colpo di polso su un cubo nero.