Home Dal giornale I “Modi ‘d dì” del Titano: Checco Guidi, terzo atto

I “Modi ‘d dì” del Titano: Checco Guidi, terzo atto

da Alessandro Carli

L’impostazione è più o meno la stessa: rispetto alle prime due puntate sono cambiate le “firme” di chi ha illustrato il libro. Nel 2004 è stata Nicoletta Ceccoli, nel 2010 Antonio Giuffrida, nell’edizione del 2023 lo stesso curatore, Checco Guidi. È fresco di stampa “Modi ‘d dì”, la “parte terza” del viaggio che il poeta del Monte Titano ha intrapreso nei “modi di dire” in dialetto sammarinese. Un volume – che si può già acquistare nelle librerie e nelle edicole del territorio – che non ha bisogno di particolari presentazioni: i primi due capitoli, sulla Rupe, sono nelle case di quasi tutti i cittadini.

Il tre è il numero perfetto.

“Negli anni che separano il secondo volume dal terzo ho continuato a raccogliere i detti popolari. Detti spesso incontrati casualmente: ho sempre frequentato gli anziani, il loro modo di parlare o di commentare qualcosa. Ho appuntato su carta quello che sentivo dire perché temevo, il giorno dopo, di non ricordare più certe parole. In poco più di due lustri ne ho ‘portati a casa’ circa 300, un buon numero per realizzare un libro. La struttura è come quella presente nelle prime due pubblicazioni: il modo di dire in dialetto sammarinese e un mio commento, una ‘genesi’ su come è nato, sul perché si dice”.

Con qualche cognome…

“La maggior parte dei modi di dire arrivano dalla mia infanzia o dalle parole degli anziani. In questa raccolta compaiono alcuni cognomi: quello di un certo Bartolini, che aveva un maiale non proprio di compagnia, o di un certo Podeschi, che invece aveva un cane. Quando a una persona si indirizzava la frase ‘Te t cì cmè e’ chén ‘d Podeschi’ si intendeva farle capire che era un buono a nulla. Il paragone richiamava il cane di Podeschi, che probabilmente non faceva la guardia, non allontanava gli animale dannosi, non era di compagnia, mangiava tanto e dormiva tutto il giorno. Praticamente ‘el dèva snà dàn’, per dirla il dialetto”.

Il dialetto si presta anche a qualche parolaccia.

“Sì, come ad esempio ‘I zcàr dri de cul’, che potremmo tradurre in italiano con ‘parlano dietro al sedere’. Il significato della metafora è abbastanza chiaro”.

Nel libro si incontrano, spesso, parole desuete.

“Un detto che ho raccolta recita così: ‘Soura l’urinèl a sem tot uguèl’. La parola ‘urinèl’ non è più in uso e non risulta quindi molto comprensibile, soprattutto ai più giovani”.       

E la campagna.

“Appartiene alla vita contadina anche ‘la galoina la fa l’uv e m’e’ gal ui brusa e’ cul’. Siamo nel pollaio: la gallina fa l’uovo, cioè lavora, e il gallo si lamenta. Succedeva che la donna doveva sobbarcarsi il lavoro sia in casa che fuori – stirare, pulire, cucinare – mentre l’uomo, arrivando dal campo, si lamentava perché il pranzo non era pronto, la camicia non era stirata, eccetera. Oggi le cose, per fortuna, sono migliorate e anche la donna sa farsi rispettare”.

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