Home Notizie del Giorno Visto per voi a teatro: “Il Dio bambino” con Fabio Troiano

Visto per voi a teatro: “Il Dio bambino” con Fabio Troiano

da Alessandro Carli

Sbagliatissimo scrivere in prima persona, sbagliatissimo anche iniziare con un corsivetto, ma un “cappello” – tanto caro al Signor G. anche quando era in scena – va “cucito” con abilità di sarto (o di Cappellaio Matto): ammetto che il monologo passato sulle assi del Palazzo del Turismo di Riccione venerdì 24 marzo mi era sconosciuto. Gravissima pecca per chi è stato “battezzato” a teatro proprio da un monologo di Giorgio Gaber, “Il grigio”, in scena al “Goldoni” di Venezia nella seconda metà degli Anni Ottanta. Colpevolissima mancanza per chi poi lo ha seguito – con rigorosa attenzione, sino alla sua ultima esibizione pubblica, il 15 febbraio 2000, al “Nuovo” di Dogana, nella Repubblica di San Marino – quasi annualmente.

“Il Dio bambino”, assieme a “Il grigio” una delle poche “distrazioni” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini del lungo e meraviglioso periodo del teatro-canzone, è un assolo verticale (chiamarlo monologo è riduttivo) ripreso in mano da Fabio Troiano e che “accompagna”, anzi, “spinge” il pubblico verso gli abissi più neri delle relazioni sentimentali (topos affrontato da GG anche in molte canzoni, come ad esempio “Quando sarò capace di amare”, “Il dilemma”, “Un uomo e una donna”) che finiscono. Già dall’ouverture tutto si fa – apparentemente – chiaro: sul palco gli spettatori vedono solamente bottiglie iniziate e mai finite, tavoli vuoti, fiori sparpagliati a terra, stelle filanti. In questo perimetro di distruzione – in questa “stanza della tortura” assoluta che assomiglia a un luogo che ha finito di(o) ospitare una festa per bambini -, si muovono i pensieri e le parole del protagonista. Ottimamente diretto da Giorgio Gallione, il possente Troiano, che ha capito alla perfezione il verbo gaberiano della famiglia facendolo suo senza scivolare nel manierismo del Signor G. – incontro, infatuazione, sopportazione, diversità, incomprensione, rassegnazione, addio, tradimento – tratteggia con assoluta bravura il “quadro” di questo Dio adulto (per età) che non vuole, o che non sa crescere. Un Peter Pan contemporaneo quindi che condivide con la platea la propria, personale storia del cuore: il primo incontro con Cristiana – in giovane età modella fotografica, da adulta fotografa – in un albergo quando la ragazza era la fidanzata del suo amico Gilberto, e poi la vita insieme, le corna con una studentessa di antropologia (forse quella de “Il dilemma”, quella dell’inciso “in un giorno di primavera / quando lei non lo guardava / lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova”?) la crisi superata con la nascita del secondo figlio, la solitudine che avverte dopo l’addio, quel silenzio assordante che si può incontrare dopo il passaggio di un treno. A fare da cerniera al flusso di parole, qualche frammento cantato dallo stesso Gaber, che scenicamente e drammaturgicamente dà respiro e aria alla pièce, punteggiata da piacevoli note autoironiche e di raffinato umorismo. Ed è proprio con la nascita del figlio, un momento di passaggio e non di passeggio – figlio che nasce “bambino”, che è lo specchio naturale del padre e che “gli cade addosso” nel momento meno indicato – che il protagonista abbandona la parte del baco e diventa farfalla. La chiusa ottimistica e positiva che “sboccia” in un campo di fiori appassiti ci fa capire che non è vero che “la libertà non è uno spazio libero”, anzi, ma piuttosto che “la libertà è partecipazione”.

Sipario. 

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