Home categorieCultura Visto per voi al teatro “Bonci”: “Il tempo di Chet” di Paolo Fresu

Visto per voi al teatro “Bonci”: “Il tempo di Chet” di Paolo Fresu

da Redazione

Non è una strada ma un tempo girato, ripiegato, che vira nell’epoca in cui il mondo conosceva solamente il bianco e nero. E la magia del Maestro sardo è tutta qui: lui colora il non colorabile.

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di Alessandro Carli

 

CESENA – Raccogliere le note nei sentieri di un palmo di mano, accarezzare un nome – bellezza, non uno qualunque, quello di Chet Baker, il padre del cool jazz – e farlo proprio. Anzi, estenderlo, come una nota, un assolo, un fraseggio che ti prende quando la tua anima è ancora incantata, incartata dalla forza del teatro “Bonci” di Cesena, perla tra le perle del territorio romagnolo, e ti lascia dentro un piccolo seme, forse una tenia che, pezzo dopo pezzo, diventa un’immagine. Nessuno sgranerebbe gli occhi se scoprisse che il suo retrogusto è dolce come una caramella all’orzo, una ginevrina amara, ma solo un poco, come lo sono solamente le musiche lontane. Quelle della memoria.

Paolo Fresu non omaggia Chet Baker: gli dà un’altra vita. Lo fa suo portandolo tra i campi profumati della Sardegna, lì dove le sonorità sono aspre come un mirto, lì dove il mare bagna le note e le trasforma. Le lava.

“Il tempo di Chet” ha la leggerezza incontaminata di una fatamorgana, un’altrove da osservare ad occhi chiusi. È voce, ma anche cuore. E il musicista di Berchidda, dentro il suo ottone, ci soffia dentro l’anima e le parole di chi vive nel silenzio, lontano dai riflettori, impegnato a sopravvivere con la dignità che concede, quando è il sintonia, il pentagramma.

“Il tempo di Baker” non è una strada ma un tempo girato, ripiegato, che vira nell’epoca in cui il mondo conosceva solamente il bianco e nero. E la magia di Fresu è tutta qui: lui colora il non colorabile, dà una seconda possibilità di redenzione al volo del gabbiano senza ali, Chet, che nel 1988 decise di sposare il buio lanciandosi da una finestra di un hotel di Amsterdam.

Il grido più struggente del ventesimo secolo sentito in Olanda non è stato l’ultimo: prima ci sono i suoi racconti di vita eseguiti sublimando la parola. Solo le note, prive dei limiti degli idiomi di un Paese, sono in grado di comunicare al mondo tutti i suoi spleen.

Come in “My funny Valentine” (la meravigliosa coincidenza ha voluto che le tre repliche dello spettacolo siano iniziate proprio il giorno di San Valentino) oppure “When I fall in love”, il presagio della caduta dell’angelo, con l’anima che spreme le note dal profondo più nero dell’esistenza e le libera sino alla piccionaia, ali che incontrano ali e che decidono di scegliere il cielo e non la terra, battiti di ciglia che diventano grandi e vogliono spiccare il volo, raccontare – a chi sa ascoltare – la vita di un musicista che era anche un uomo. E che sapeva amare. Amare l’amore, amare nell’amore. Amare per amore. Baker ama, e lo dice con il suo linguaggio: quello della musica, del fascino delle vite disperate e maledette che si consumano nei locali più fumosi e alcolici, nelle taverne di mare, con gli occhi che accarezzano lo strumento e le dita che avvertono gli sguardi dei presenti, i loro racconti più nascosti – ermeticamente sigillati – che si sciolgono come ceralacca, e rilasciano il profumo di un addio.

Non è un concerto, quello scritto da Leo Muscato (sua anche la regia) e Laura Perini e che ha visto sulle assi del “Bonci”, oltre a Paolo Fresu, Marco Bardoscia (foto di Tommaso Le Pera) e Dino Rubino anche gli attori Alessandro Averone, Rufin Doh, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza, Laura Pozone, ma l’incontro tra una sapiente scrittura drammaturgica e una raffinata partitura musicale. Un lavoro “fusion” quindi. Se da un lato, come ha spiegato lo stesso Fresu, “la sua vita e la sua morte sono ancora oggi avvolte dal mistero” e “la sua musica è straordinariamente limpida, logica e trasparente, forse una delle più razionali e architettonicamente perfette della storia del jazz. Ci si chiede dunque come mai la complessità dell’uomo e il suo apparente disordine abbiano potuto esprimersi in musica attraverso un rigore formale così logico e preciso”, dall’altro c’è la necessità di dare una forma alle note e alla vita di chi le ha messe al mondo. Ed il punto di equilibrio, a tratti splendidamente manieristico, altre volte accovacciato nella malinconia, è scandito dalle dita che si muovono sui tasti e dalle mani che “ritmano” sul parapetto dei loggioni del teatro “Bonci” le musiche e le parole.

Il resto, bellezza, è jazz.

E va vissuto, se si ha la fortuna di poterlo fare.

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