Home Notizie del Giorno Addio “Donaldino”, Rimini ricorda il Casanova felliniano

Addio “Donaldino”, Rimini ricorda il Casanova felliniano

da Redazione

A pochi giorni dalla scomparsa di Anouk Aimée, la colta e raffinata “Anucchina”, che diede voce e volto ai personaggi di Maddalena ne La dolce vita e di Luisa in , ci lascia “Donaldino”, un altro interprete e testimone di “Fellinia”, l’universo creato dall’immaginazione del regista riminese.

Le loro strade si sono incrociate in occasione de Il Casanova. Dino De Laurentiis, il primo produttore del film che poi abbandonò, voleva un divo americano. Si fecero i nomi di Michael Caine, Jack Nicholson, Paul Newman, Robert Redford, fino a Marlon Brando. Fellini pensava invece a un italiano: Gian Maria Volontè, Vittorio Gassman, Alberto Sordi o l’eterno candidato a un ruolo felliniano, poi mai indossato, Ugo Tognazzi. La scelta, come noto, cadde poi sul canadese Donald Sutherland, l’odioso e ferocissimo fascista di Novecento di Bertolucci. A convincere Fellini della scelta, più che le qualità e la proverbiale meticolosità dell’attore, fu probabilmente l’affinità di quel ruolo con il ritratto, appunto da protofascista, che il regista intendeva tracciare dell’avventuriero veneziano.

Fu una lavorazione difficile, un film tormentato che mise a dura prova l’attore e il regista. Tra Fellini e Sutherland non fu subito simpatia e lo scontro fu inevitabile: troppo consapevole l’attore per un regista come Fellini, che sul set spesso improvvisava, che andava a braccio, che della filologia e della fedeltà al testo o al contesto poco interessava. Sutherland, che si era preparato alla parte leggendo tutto quello che poteva leggere su Venezia, sul Settecento e sul Casanova, compresi i dodici volumi delle sue memorie, chiedeva spiegazioni, cercava motivazioni, voleva capire perché un episodio era stata tralasciato oppure perché altri (e non pochi) erano stati invece del tutto inventati. Fellini invece, che non riusciva a venire a capo di quel vitellone invecchiato nel quale si rifletteva e che detestava, cambiava continuamente il copione, costringendo ogni mattina il povero Sutherland a interminabili sedute al trucco: ore e ore di make-up che gli stravolgevano la faccia con le sopracciglia rasate a zero, i capelli tagliati fino a metà cranio e l’aggiunta di un mento finto.

Oltre venti settimane di lavorazione, il teatro 5 di Cinecittà, dove è stato costruito il Settecento felliniano, trasformato in un enorme set psicoanalitico, in una polveriera sul punto di esplodere, con il regista alle prese con i suoi fantasmi e Sutherland che rifiuta di lasciarsi modellare come un blocco di plastilina. Ma di tutta questa fatica, di tutto questo stress psicologico, che portò l’attore canadese anche sull’orlo del divorzio, resta una delle interpretazioni di Sutherland più riuscite e uno dei personaggi di Fellini più memorabili.

Qualche mese dopo l’uscita del film, Fellini annota nel suo Libro dei sogni (30 maggio 1977): “Vedevo a un centinaio di metri Sutherland tutto vestito di bianco che mi voltava le spalle, in un provino… Riflettevo su cosa Sutherland immagina che io stia facendo e mi pareva quasi di udire la sua voce rispondere: “Ma Fellini starà facendo un altro film” come a voler sottolineare che Casanova è ormai un incidente lontano e che non ha lasciato conseguenze…”

E lo stesso Sutherland a distanza di anni, in occasione della presentazione del restauro del film alla Mostra del cinema di Venezia, racconta “Sul set Fellini mi diceva sempre: ‘cerca di accettare la realtà ma anche l’irrealtà. Per me era piuttosto difficile perché allora ero un tipo piuttosto razionale. Ma le settimane con lui, passate ad ascoltarlo, sono state una delle esperienze più belle della mia vita”.

Con il Don Chisciotte di Cervantes, il Faust di Goethe e l’Amleto di Shakespeare, il Casanova di Fellini è una delle grandi figure della modernità: l’incarnazione dell’eterno adolescente, l’essenza stessa del vitellonismo, ma è anche una maschera storica, il rappresentante più bieco del maschio latino, l’esito del fallimento della liberazione sessuale degli anni Sessanta trasformata in ossessione e sotto questo profilo il film di Fellini si colloca sullo stesso piano dei quasi coevi L’ultimo tango a Parigi di Bertolucci, La grande abbuffata di Ferreri e Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel.

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