E finalmente arriva quella giornata in cui senti di aver fatto la cosa giusta.
Quel frangente in cui ti sei comportato nel modo corretto.
Quella conclusione di una situazione complessa, che ti ha richiesto giorni e giorni di lavoro, in cui sei stato capace di raddrizzare anche gli errori fatti durante il percorso
Insomma, tra tante tribolazioni arriva finalmente il giorno in cui sei soddisfatto di te stesso.
Una sensazione così gratificante, che – se non sei capace di gestirla – ti intrappola nel più subdolo e scontato dei modi: montandoti la testa.
“Si può essere orgogliosi senza essere vanitosi. L’orgoglio infatti si rifà piuttosto all’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quella che vorremo che gli altri avessero di noi” precisa Jane Austen in “Orgoglio e pregiudizio”.
Chi è vanitoso per la sua bellezza esteriore, farà di tutto per cercare di arginare quella vecchiaia che arriva a cambiare i connotati.
Chi è vanitoso per i propri beni materiali, farà di tutto per non andare incontro a un fallimento.
Chi è vanitoso per le proprie capacità, per le proprie conoscenze, farà di tutto per stroncare la concorrenza o chi mette in dubbio il suo primato.
Chi è disposto “a fare di tutto” – per qualcosa che non sia un gesto di amore – fa paura.
Ma fa ancora più paura chi crede di non essere vanitoso e di fare sempre e solo il bene degli altri: qui i problemi si fanno seri, perché in questi casi la vanità invita a ballare la presunzione.
E ballano, ballano, ballano. Pestano i piedi, decidono il ritmo.
E tu sei in potere di quella danza.
Ti inebria.
Ti tiene vivo. E non ti accorgi che ti confonde, tanto che – come scrisse Goethe nelle sue “Massime e riflessioni” – “Idee generali e grandi presunzioni sono sempre in procinto di provocare terribili disastri”.
Ogni volta che aiutiamo qualcuno, sentendoci dei benefattori.
Ogni volta che diamo un consiglio, mettendoci in cattedra.
Ogni volta che ci crediamo indispensabili, cadiamo sempre più in questo ballo inutile e doloroso, che ci porta a sbagliare.
Se l’essere umano fosse una palazzina, i suoi appartamenti sarebbero abitati dai più stravaganti personaggi – dalla timidezza alla goliardia, dall’indifferenza all’entusiasmo – e tutti sosterebbero per periodi più o meno lunghi.
Tranne uno.
Ci sarebbe un appartamento costantemente abitato, senza soluzione di continuità, dalla vanità.
Anche quando credi di averla persa per strada, a furia di schiaffi dal destino, lei ancora ti abita.
Silenziosa ma sempre presente.
Eppure un rimedio c’è.
Esiste.
E ce lo suggerisce il filosofo francese Henri Bergson: “L’unica cura contro la vanità è il riso, e – aggiunge – l’unico difetto ridicolo è la vanità” (“Il riso”, 1899).