È noto a tutti che ogni giorno, in tante situazioni, usiamo più parole del necessario.
Quando le spiegazioni sono troppe lunghe.
Quando per cercare di chiarire un pensiero si complica un dialogo.
Quando un rimprovero diventa un’omelia.
Quando “non so come dirtelo” e nell’indecisione uso due terzi dello Zingarelli, finendo per ipnotizzare l’interlocutore più che informarlo. In questi e altri mille casi, le parole diventano davvero troppe. Anche per chi le ama tanto.
“Certo, certo sarò un logorroico, un innocuo e fastidioso logorroico, come tutti noi. Ma che fare se la prima e unica destinazione dell’uomo intelligente è la chiacchiera, cioè il meditato travisamento di un vuoto in un vuoto più grande?” spiegava con tagliente precisione Dostoevskij in “Memorie dal sottosuolo” (1864).
Il più delle volte chiediamo aiuto alle parole per farci capire meglio.
Ci appelliamo a loro per spiegare intenzioni che sono state travisate.
Per commentare atteggiamenti che non ci sono piaciuti.
Per giustificare gesti che non hanno avuto l’effetto desiderato. Ma la maggior parte delle volte, più parliamo più complichiamo la situazione. Aggiungiamo frasi ad altre frasi per tentare di essere più chiari e finiamo per risultare ambigui e pedanti. Allora, per sicurezza, buttiamo lì un altro esempio, poi un aneddoto, e per concludere una citazione, convinti di essere stati finalmente diretti ed esaustivi.
Purtroppo non è così.
Purtroppo più si tenta di semplificare, più si diventa complicati.
“Nessuno parlerebbe molto in società, se sapesse quante volte fraintende gli altri”, scrive Goethe in uno dei suoi capolavori, “Le affinità elettive” (1809).
Dato, però, che siamo convinti di capire tutto e tutti – anche le parole non scritte figuriamoci quelle non dette – andiamo avanti imperterriti ad inanellare parole, ignari che più si cerca di descrivere cosa si prova, più si finisce in un labirinto di fraintendimenti.
Ci aspettiamo così tanto dalle parole, da pretendere che loro escano con precisione da pensieri disordinati, a spiegazione di comportamenti caotici.
Ma troppe parole e pochi contenuti non sono un buon punto di partenza per un dialogo o una spiegazione.
Eppure, in tutta questa Babele di vocaboli sterili, che pronunciamo vanamente, solo per fare bella figura, o solo per paura del silenzio, siamo capaci anche di frasi portentose.
Quando centelliniamo parole in modo da non nuocere.
Quando decidiamo di fare una confidenza. E quando – in qualche modo ma non sappiamo come – a una confidenza dobbiamo rispondere, possibilmente non attaccando chi si è spogliato davanti a noi ma portando un po’ di conforto.
Quando chiediamo scusa, senza voler aggiungere i “ma” e i “però” tipici delle giustificazioni e della contraccusa, non delle richieste di perdono.
Quando suggeriamo un rispettoso “Coraggio!”.
Quando ci sforziamo di ricordare la poesia o una preghiera, perché sarebbe proprio quello che ci vuole.
La poesia per guardare da un altro punto di vista – e di vita – la realtà.
Una preghiera per chiedere la forza per affrontarla.