Home Notizie del Giorno Visto per voi a teatro: “Trilogia di un visionario” di Michele Placido

Visto per voi a teatro: “Trilogia di un visionario” di Michele Placido

da Alessandro Carli

La narrazione cinematografica è, per natura, diversa da quella teatrale: raramente vi è una sovrapposizione di risultati. Questo perché i tempi artistici sono diversi e i pubblichi (volutamente con l’acca e rigorosamente al plurale) possono sì essere gli stessi ma hanno aspettative che cambiano a seconda del luogo.

Michele Placido, foggiano di nascita, ha una sana e longeva passione per Pirandello: per “Placido recita Pirandello”, nel 1991, ha firmato la regia; poi nel tempo ha frequentato il Nobel di Girgenti in “Io e Pirandello” (2005); ne “L’uomo dal fiore in bocca” (sua la regia nel 2010); in “Così è (se vi pare)” nel 2012 e nei “Sei personaggi in cerca d’autore” nel 2017. È del 2024 invece il film “Eterno visionario” in cui ha diretto Fabrizio Bentivoglio: il percorso e il dialogo quindi sono piuttosto marcati. Sulla scia del film, a fine gennaio il Teatro comunale “Claudio Abbado” di Ferrara ha ospitato la prima nazionale della “Trilogia di un visionario”, spettacolo passato sulle assi del Teatro Nuovo di Dogana mercoledì 12 febbraio: un lavoro che racchiude – in 85 minuti di atto unico – quattro testi, ovvero “Lettere a Marta”, “L’uomo dal fiore in bocca”, “La carriola” e “Sgombero”. Mentre il carteggio con la Abba si svolge in soli cinque minuti e, de facto, è il prologo” dello spettacolo (in scena l’attrice legge il telegramma della morte del poeta di Girgenti, datata 10 dicembre 1936, a cui segue una voce fuoricampo con una missiva scritta da Pirandello e dedicata a lei), gli altri tre testi danno corpo al lavoro.  

“L’uomo dal fiore in bocca” è piuttosto conosciuto – unico atto unico per il teatro scritto da Luigi Pirandello che, nel tempo, è stato affrontato sia da Placido che da Vittorio Gassman nel 1970 (ma va ricordata anche la versione di Gabriele Lavia di una manciata di anni fa) -, gli altri due testi, non nati esattamente per la scena, sono invece una bella sfida: la scrittura drammaturgica ha lo stesso impatto della scrittura per il palco? In parte sì. La mise en scene, com’era facile immaginare (è un pastiche di tre testi diversi), risulta frammentata: sul palco si recitano tre spettacoli “di parola”, accomunati da scenografie piuttosto minimaliste (e semplicistiche). Nel primo, “L’uomo dal fiore in bocca”, l’azione vissuta da Michele Placido e Palo Gattini si compie tra una panca, un tavolino e una sedia; nel secondo invece troviamo Placido da solo, avvolto nel buio e nero di scena, interpretare in forma di monologo l’avvocato che fa fare la carriola al suo cagnolino, ovvero lo prende per le zampe posteriori (“La carriola” è la novella che contiene una delle frasi più dense di Pirandello: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina”).  

“Sgombero” (novella poco conosciuta e pubblicata solamente dopo la morte di Pirandello) è – per tematica affrontata – una sorta di “chiusa”, un omaggio all’universo femminile del drammaturgo siciliano: sul palco solo due attrici e il fantoccio di un uomo defunto, sdraiato sul letto, padre e marito delle due protagoniste (Valentina Bartolo che dà corpo e voce alla figlia Lora, Brunella Platania invece è la madre). Nel terzo e ultimo testo il ritmo cambia in maniera repentina: ai primi due lavori, compassati per movimento e voce ma comunque pirandelliani, fa da contraltare una rappresentazione decisamente caricaturale, che porta la platea (o almeno, una parte) a rivedere più le femmine sanguigne e fumantine di De Filippo che quelle pirandelliane (si pensi a Silia Gala de “Il giuoco delle parti” oppure a Matilde in “Enrico IV”, per esempio, pazze ma eleganti e dignitose).

Una Lora che nasce pirandelliana (bella la discesa in platea, con il conseguente abbattimento della quarta parete), che omaggia Emma Dante ma che poi continua a crescere, a salire di tono e di gestualità, risulta molto “incazzata”, forse troppo, facendo scivolare il dramma verso la Commedia dell’Arte.

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