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L’egocentrismo, un faro che guida ogni scelta

da Simona Bisacchi

Qualche anno prima di morire, Erich Fromm scrisse “Avere o essere?”, un saggio in cui lo psicanalista tedesco auspicava un nuovo umanesimo fondato non sull’avere ma sull’essere, spiegando che “essere” significa rinunciare al proprio egoismo e al proprio egocentrismo.

A distanza di quasi cinquant’anni da quelle parole, ci ritroviamo a vivere una quotidianità in cui l’egocentrismo è il faro che guida ogni scelta e occasione.

Anche quando crediamo di compiere un’azione per il bene altrui, in realtà stiamo solo dimostrando a noi stessi come gli altri abbiano bisogno di noi. Se gli altri, poi, non riconoscono quanto siamo stati preziosi, allora sono solo invidiosi o ingrati.

Come sottolineò lo scrittore Claudio Magris in “L’egoista e l’egocentrico” – breve scritto uscito una decina di anni fa sul Corriere della sera – “Nel lavoro come in una relazione sentimentale, l’egocentrico tende a sentirsi incompreso, mal ripagato e pone al centro del mondo la sua stizza, la sua malinconia, la sua infelicità e soprattutto la sua convinzione che l’altro, gli altri non capiscono l’ineffabile ricchezza del suo cuore”.

E mentre l’egocentrismo si innalza fino a volare, l’autostima precipita nel sottosuolo.

Ciò che sembra una contraddizione in termini è in realtà un fenomeno molto diffuso, che non osiamo vedere. 

Ogni giorno ci impegniamo per nutrire il nostro ego: ci muoviamo, agiamo, parliamo per ottenere un riconoscimento – monetario, professionale, affettivo – da chi abbiamo di fronte, perché senza di quello ci sentiamo incompleti, infelici. Abbiamo bisogno di qualcosa o qualcuno che ci faccia sentire importanti, che sottolinei quanto valiamo, perché noi – fondamentalmente – non ci stimiamo. Non abbiamo fiducia in noi, nelle nostre possibilità.

Il nostro egocentrismo è così forte che noi non ci impegniamo per far evolvere le nostre capacità e sanare le nostre mancanze. No, noi ci dedichiamo anima e corpo a nascondere i nostri difetti.

Al contrario, la nostra autostima è così fragile che davanti a una risposta sgradevole ci offendiamo. Davanti a un brutto voto, o a un parere negativo, aggrediamo. E se qualcuno ci fa notare un nostro difetto, rispondiamo elencando i suoi, in uno stantio gioco di “specchio riflesso” che non era divertente nemmeno da bambini.

Ma se per una volta quella risposta sgradevole ce la facciamo scivolare addosso, ricordandoci di quante ne abbiamo date noi di risposte ben peggiori di questa. Se davanti a quel parere negativo decidiamo di imparare di più, di capire meglio. E se davanti alla lista dei nostri difetti ammettiamo un onesto “È vero. Hai ragione. Ma quasi quasi mi viene voglia di cambiare”. Allora mettiamo da parte un po’ del nostro egocentrismo, per dedicarci semplicemente a tutta quella potenziale bellezza che in noi risiede, ma che soffochiamo nel tentativo di apparire qualcosa di più, senza chiederci “Ma più di cosa? Più di chi?”. 

Siamo così occupati a dimostrare agli altri di avere doti che non possediamo, da trascurare quelle che abbiamo e che vanno allenate, sviluppate, per diventare reali, efficaci.

Credere in sé stessi non significa credere di essere il centro dell’universo ma semplicemente di farne parte, ed essere quindi responsabili della zolla di terra che occupiamo, per quanto piccola e polverosa.

Significa credere che possiamo diventare persone degne di fiducia, nonostante i nostri errori. Credere di poter andare al di là della nostra pigrizia – fisica e intellettuale – per compiere slanci inaspettati.

Credere in sé stessi significa credere che – se stiamo attenti a non nuocere – gli altri diventano la nostra opportunità di scoprirci, di metterci alla prova, di correggerci. Perché – come ha rimarcato Fromm – “Se la separazione egocentrica è il peccato basilare, si può tuttavia espiarlo con l’atto d’amore”.

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