È forse scritto nel destino (e nella storia) che gli omaggi più riusciti alla “napoletanità” arrivino dall’esterno della Campania: si pensi a “Don Raffaè” nella musica, pezzo meraviglioso di Fabrizio De André, oppure “Passione”, il film di John Turturro (così distante, nell’efficacia, da “Parthenope” di Sorrentino), giusto per citarne due. Se davvero “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”, la prova “provata” è l’interpretazione che l’ottimo Natalino Balasso ha dato del suo Calogero Di Spelta, il protagonista de “La grande magia” di Eduardo e passato sulle assi del Teatro della Regina di Cattolica giovedì 28 novembre.
Un testo anomalo, quello di De Filippo, pirandelliano per genesi, per tematiche e per l’accoglienza che ebbe alla “prima” del 1948: come per “I sei personaggi in cerca d’autore”, anche “La grande magia” non ebbe successo e il pubblico non riuscì a coglierne l’essenza, ovvero la sovrapposizione (e lo scambio) tra l’illusione e la realtà.
La commedia, diretta da Gabriele Russo, “gira” attorno a un Natalino Balasso in grande forma e in grado di “far crescere” il suo personaggio in fieri. La pièce è ambientata in una grande struttura ricettiva di una località termale, meta di svago e di benessere della borghesia più danarosa. Al “Metropolitan” – questo il nome dell’albergo – un “pissi pissi” infastidisce Calogero: i villeggianti difatti, viste le piacevoli fattezze della moglie Marta, spettegolano sulla morbosa gelosia del marito. Gelosia non del tutto immotivata: Marta ha un amante, Mariano D’Albino (Gennaro De Biase). Con l’aiuto di Otto Marvuglia (il mago del titolo, interpretato da un convincente Michele Di Mauro; oltre a lui, sul palco, va ricordata una eccellente Anna Rita Vitolo nel doppio ruolo della Signora Zampa e di Matilde, la madre Di Spelta) che la fa teatralmente “sparire”, lo incontra, lo bacia davanti a Di Spelta e poi, per magia, scappa a Venezia con il ragazzo.
Dopo qualche anno (quattro, per l’esattezza), Marta torna dal marito: l’amante l’ha scaricata. Calogero però non la accoglie: come ne “L’inconsolabile” che Cesare Pavese ha inserito nei “Dialoghi con Leucò” (Orfeo ed Euridice con Orfeo che si gira per guardare Euridice per perderla per sempre; riportarla in vita non ha alcun senso, perché quanto è perduto lo è per sempre), il marito preferisce perderla e tenersi la sua illusione.
La messa in scena di Russo, che ha asciugato in un atto unico di due ore il testo, parte con un po’ di “affanno”: il primo quadro difatti, dopo un interessante incipit – buio in scena e la voce di Eduardo che racconta che si tratta della “commedia che forse mi sta più a cuore e che mi ha dato più dolore” -, registicamente (e quindi visivamente) non riesce a risolvere il dualismo tra finzione e realtà, spingendo forse troppo sui toni farseschi (comunque presenti nel testo drammaturgico e nel testo scenico di Eduardo) che si avvitano su sé stessi, portando la commedia nel cabaret più pop e a tratti più manieristico. L’entrata sul palco del mago (vero protagonista dell’opera) portano la platea (non tutta, ovviamente: solo chi ha colto i riferimenti) verso due “suggestioni”. La prima, immediata, è il rimando/omaggio all’Amleto di Shakespeare (Marvuglia tiene in mano un piccolo teschio); la seconda è invece l’ombra, gigantesca, del Pirandello de “Il berretto a sonagli”, quello delle celebri tre corde di Ciampa (“La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte”) che ne “La grande magia” diventano il “terzo” occhio, piantato in mezzo alla fronte.
Commedia che però si riprende, e bene, nei due quadri successivi quando, abbandonata la scenografia termale, il pubblico “entra” davvero nel dramma dell’uomo cornuto anche grazie a Natalino Balasso che, spogliatosi degli abiti del personaggio dimesso, sospettoso e in parte rassegnato, fa rifiorire Calogero Di Spelta, trasformandolo in un convincente personaggio della Commedia dell’Arte.