Home Dal giornale La grande differenza tra “fare” ed “essere”

La grande differenza tra “fare” ed “essere”

da Simona Bisacchi

Quando qualcuno ci chiede “Tu che lavori fai?”.

Raramente rispondiamo “io faccio”: io faccio la giornalista, l’autista, l’idraulico o l’ingegnere.

Più spontaneamente dichiariamo “Io sono”.

Io SONO giornalista, autista, idraulico o ingegnere.

Ci sentiamo così definiti dal nostro mestiere, da renderlo totale espressione di noi stessi.

Spingiamo tutta la nostro immensità – e complessità – all’interno di questo perimetro limitato, e instabile, che è la nostra professione.

Perché è lì che ci sentiamo riconosciuti, è lì che ci sentiamo di avere un ruolo, sociale e umano.

E tutti abbiamo un disperato bisogno di ricoprire una mansione, di avere un compito in questo mondo, qualcosa che giustifichi la fatica e le notti insonni, le arrabbiature e il tempo speso per diventare il capo, di un ufficio, di una famiglia o anche solo del circolo di lettura.

La differenza tra “fare” ed “essere” non è una mera questione grammaticale ma – piuttosto – esistenziale.

Come un avvocato può dire di essere tale, solo se ha fatto gli studi di giurisprudenza e l’esame di stato, così l’essere umano può dire di essere tale, solo se ha fatto gesti degni di questa splendida carica.

Perché io – come tutti – “faccio” alcuni lavori, molto belli, che prendono diverse ore della mia giornata.

Ma soprattutto io “sono” – come tutti – un essere umano, e questo impiega ogni minuto e secondo della mia esistenza.

E questo implica “essere” tristi: quando ti trovi faccia a faccia con la sofferenza e hai perso tutte le parole, o quando eri disposto a dare la tua aria e dimezzare i tuoi respiri pur di vedere respirare ancora chi avevi di fronte, ma no, non è stato possibile.

“Essere” sopraffatti: quando eri a pronto a scavare con le mani per tirare fuori qualcuno dalla buca in cui era caduto ma hai dovuto accettare che in quella buca lui ci stava benissimo, mentre tu rischiavi di caderci e non uscirne più.

Ma implica anche “essere” capaci.

Capaci di non perdere la rotta anche in mezzo a un susseguirsi di tempeste.

Capaci di forza immensa dentro corpi fragilissimi.

Capaci di lucidità in mezzo ai tumulti, di compassione davanti alle angherie, di sorriso davanti alle disfatte.

Capaci di non arrendersi.

Capacità che richiedono tempo e costanza per essere avvicinate, conquistate e affinate.

Ma più “facciamo” gesti umani – di educazione, di comprensione, di non condanna – più “siamo” umani. E sarebbe tutto molto più semplice da ottenere, se solo ci rendessimo conto che non c’è ruolo più solenne, non c’è mansione più inviolabile, non c’è compito più eletto di questo essere – semplicemente – portatori di luminosa umanità.

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