La prima reazione conta.
La prima reazione davanti a una notizia, a un imprevisto, a una proposta. Ma anche davanti a una persona, a quello che ci dice, ai suoi modi, ai suoi mutismi.
La prima reazione costituisce il basamento di quella cattedrale di relazioni e azioni che verranno poi, come conseguenza delle parole e dei gesti che hai pronunciato, anche se erano buttati lì dall’istinto, dall’impulso, più che dall’ascolto o dalla riflessione. Perché la prima reazione è di pancia: sanguigna, eccessiva, troppa stizzita, troppo turbata o anche troppo entusiastica. Oppure è di testa: fredda, calcolatrice, tendenzialmente egoistica.
Quasi mai la prima reazione è quella migliore.
Ma se abbiamo la forza di fare un passo indietro, di fermarci prima che il meccanismo sia innescato e la nostra testa o la nostra pancia abbiano il sopravvento su di noi, allora sentiremo arrivare qualcosa di diverso: la seconda reazione.
Quella più equilibrata, più leale, capace di aprire altre possibilità.
La distanza tra la prima e la seconda reazione sta tutta in un attimo. Se riempiamo quell’attimo di sentenze o schiaffi – fisici o morali – abbiamo mancato il bersaglio: la prima reazione si è innescata e dobbiamo essere in grado di accettarne gli effetti.
Ma se quell’attimo lo riempiamo di silenzio, se lo lasciamo trascorrere trattenendo il fiato, mettendoci in attesa invece che all’attacco, allora approdiamo alla seconda reazione: non sappiamo esattamente cosa accadrà, ma potremmo rimanere piacevolmente sorpresi.
“Il silenzio affina l’udito” confida il piccolo Africa – ne “L’occhio del lupo” di Daniel Pennac – conversando con il ghepardo, che non cercava altro che un amico a cui essere fedele fino all’ultimo, fino all’assurdità che l’esistenza ti sa mettere davanti. Senza quel momento di silenzio, non siamo in grado di ascoltare. Siamo come il vecchio lupo azzurro descritto da Pennac che guarda il mondo con un occhio solo, perché ha visto a sufficienza per capire che è brutto e triste e non si merita un suo sguardo più approfondito. Ciò che ha conosciuto gli è bastato per capire tutto e non guardare oltre. Poi, però, arriva Africa. Un bambino che ha visto e toccato le brutture del mondo, ma invece di chiudere un occhio per non vederle più, le ha rese un viaggio alla scoperta della meraviglia, nascosta a chi non cerca.
Nel silenzio della sua esistenza ha imparato ad ascoltare e raccontare, la sua storia e quella di chi incontra, anche quella del lupo azzurro.
E parlando e raccontando, si scopre che c’è sempre la possibilità di una seconda reazione, più sconosciuta, più intima, ma comunque possibile.
Perché anche in condizioni di disagio e di solitudine, la vita non solo è possibile ma cela sempre qualcosa di straordinario.
E non vale proprio la pena lasciarsi schiacciare dall’impulso di chiudere un occhio, di aggredire o di isolarsi.
Perché c’è ancora una storia da raccontare, mille da ascoltare, e la possibilità di costruire relazioni invece di gabbie.