Home Notizie del Giorno Riccione, visto per voi a teatro: Romina Mondello in “Jackie”

Riccione, visto per voi a teatro: Romina Mondello in “Jackie”

da Alessandro Carli

Un piccolo tarlo, anzi, una tenia: forse Gianni Boncompagni, la scuola di Boncompagni, quel “Non è la Rai” è stata davvero fertile e il tempo gli ha reso giustizia. Prima Ambra Angiolini (vista al teatro Astra di Bellaria nel monologo “La misteriosa scomparsa di W” di Stefano Benni una decina di anni fa), poi Sabrina Impacciatore nella “Venere in pelliccia” allo Spazio Tondelli, ora Romina Mondello, che al Palazzo del Turismo di Riccione, venerdì 10 marzo, ha dato corpo e voce a “Jackie”. Poco importa se quella “gavetta” televisiva qualcosa ha davvero fatto oppure si tratta solo di una casualità: la certezza è che questo monologo verticale – scritto da Elfriede Jelinek e ridotto, adattato dal regista Emilio Russo – l’attrice capitolina lo ha interpretato in maniera semplicemente sublime, colmando con la sua interpretazione gestuale e vocale, qualche piccolo “neo” presente nel testo scenico.  

Un’icona che abbraccia il tempo, questa eroina, una donna in cui si avvertono a tratti le eco dell’Amleto di Shakespeare (soprattutto scenicamente, soprattutto quando il teschio del Bardo diventa un viso avvolto dalle bende) e della poetica di Alberto Savinio (i fantocci di gommapiuma ricoperta di pezza che riempiono il luogo metafisico dell’azione risalendo dagli inferi), ma è solo un attimo: lo spettacolo è originale, denso, umanissimo. Spogliata di ogni orpello “glam”, lussuoso e benestante, Jacqueline “riemerge” da un Kursaal “saviniano” per far parlare il cuore. L’impatto con lo spettacolo toglie il fiato e immerge la platea in un Purgatorio, un Inferno sovrastato dal colore nero. Qui, Jackie, avvolta in un outfit/sudario, vive la sua pirandelliana “stanza della tortura”: parla con il passato – quando entra in scena la Onassis-Kennedy è già morta – per rendere pubblico quello che in vita non ha potuto dire: il rapporto con il marito e con la sua amante, “quella Marylin”, i compromessi che ha dovuto accettare per vivere “sotto le luci” e quell’abisso del “gioco delle parti” (istituzionali) che le ha regalato enormi solitudini. “Sono la bambina nella donna” racconta, quasi a voler sottolineare un peterpanismo ancora estremamente contemporaneo. Nell’ora e 15 minuti di mise en scene emerge un convincente delirio onirico in cui la protagonista più volte ricorda la morte del marito JFK ma senza cadere nella psicanalisi o nel pietismo: non una seduta “sul lettino” ma piuttosto un fiume di coscienza del passato che, ossimoricamente, solo da morta e solo a teatro può finalmente vivere. “I vestiti sono più personali delle mie parole” dice Romina (che sarebbe interessante vedere sul palco con “Emma B. vedova Giocasta” di Savinio) per spiegare alla platea l’importanza consapevole delle apparenze: dietro, dentro, la donna cela i lutti dei tanti aborti, delle tante morti precoci. La pazzia lucida di questa “Enrica IV” è una lama: nella sua “non vita” – che è più vita della vita che ha vissuto – lei trova la sua vera dimensione perché in vita era un personaggio e non una persona.

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