Basterebbe fermarsi sulla sua longevità, sul suo essere uno strepitoso “canto alla durata” (ha debuttato nel 2005 ma ci ha impiegato 12 anni per ricevere il “Premio Hystrio alla drammaturgia”): vuoi per il tema affrontato (antico e attualissimo: “Nove milioni di rapporti sessuali a pagamento all’anno, settantamila donne sul mercato”) vuoi per la sua capacità istrionica di stare sul palco, di saper raccontare storie e soprattutto di saperle comunicare efficacemente, rivolgendosi non tanto gli occhi della platea ma alla testa e alla sensibilità, questo “Sexmachine”, poderoso monologo di Giuliana Musso e passato sulle assi del Teatro di Villa Torlonia (San Mauro Pascoli, FC) il 3 febbraio, è uno spettacolo che porta in apnea gli spettatori e che conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, l’assoluto rigore filologico e l’eccezione bravura dell’attrice vicentina. La pièce, in circa un’ora e mezza, si sviluppa attraverso la tecnica del “giornalismo teatrale” (un filone che annovera anche Marco Paolini e Ascanio Celestini) quindi di una manciata di “articoli” di “cronaca” sull’universo della prostituzione, le “cocotte” ma soprattutto i clienti, fortemente “caratterizzati”, “stereotipati” sia per “tipologia” (da Dino, vecchietto arzillo che per prova un sentimento di nostalgia per la sua giovinezza quando poteva accedere e frequentare la case di tolleranza e che mette il sesso tra le tre cose che servono per vivere bene insieme a una sana alimentazione e al camminare a Igor, ragazzo che “accetta” e concepisce solamente la sessualità dei “club” e delle ballerine di lap dance, passando per il piccolo imprenditore, Sandro, che, devastato dalla crisi, cerca conforto, sconfortandosi, negli amori facili, a pagamento, dove la prestazione è merce) che geograficamente (i personaggi vivono tutti nel Nordest italiano, come si capisce dalla flessione dialettale scelta dalla Musso, in quella zona tra il Veneto e il Friuli, patria e matria degli uomini della defunta “balena bianca” che la domenica vanno in chiesa a pregare ma che durante la settimana si dedicano anche all’amore mercenario).
Sei personaggi – quattro maschili e due femminili, Silvana e Monica, leggermente meno incisivi rispetto al poker di mensch – che, a differenza di quelli pirandelliani, un’autrice l’hanno trovata, eccome: Giuliana, avvolta in un tappeto di luci semplice e perfettamente funzionale al racconto, apre a modo suo il vaso di Pandora e i “mali” che ne escono sono legati ai “vizi” del corpo. Corpi pagati, corpi paganti, corpi che suscitano, nonostante tutto, ironia – uno dei registri su cui l’attrice calca maggiormente la mano – ha anche riflessioni profonde.
Uno spettacolo di teatro civile, questo “Sexmachine”, con una scenografia minimalista – due sedie, una per lei e una per il chitarrista Gianluigi Meggiorin – e quindi “più vero”, necessario, che fa aprire gli occhi facendo forza solo sulle diverse parole sui diversi timbri, sui gesti e sui movimenti. Un grande assolo di “denuncia sociale” che lascia in bocca, però, un retrogusto di rabarbaro.