Home Notizie del Giorno Il violinista Federico Mecozzi racconta il suo secondo album, “Inwards”

Il violinista Federico Mecozzi racconta il suo secondo album, “Inwards”

da Alessandro Carli

“Ho iniziato a suonare il violino dopo aver ascoltato il tuo primo cd” dice Pietro Rosini a Federico Mecozzi più o meno a metà intervista. Pietro non ha ancora 10 anni, Federico ne ha compiuti 30. Si sono conosciuti l’ultimo sabato di ottobre quando il musicista riminese ha presentato alla libreria Feltrinelli di Rimini il suo ultimo album, “Inwards” (Warner Music Italy). Ho chiesto a Pietro di preparare alcune domande da fare a Federico sui tavolini all’aperto del bar “Primo miglio”. Con noi anche il papà di Pietro, Giulio Rosini (sue sono le due foto e quelle pubblicate sulla nostra pagina Facebook). Federico Mecozzi, violinista e compositore, da 13 anni lavora al fianco di Ludovico Einaudi e qualche settimana fa ha pubblicato il suo secondo lavoro da studio.

Che rapporto hai con Einaudi?

“Un rapporto straordinario che deriva dal fatto che Ludovico è un uomo di grande umiltà, molto umano e molto semplice. Tra di noi si è instaurata una bellissima amicizia: lui ha bisogno di condividere con chi gli è vicino sia la musica che la vita. Si è creata nel tempo una situazione ‘familiare’ nata dal fatto che condividiamo viaggi, giri e lavoro”.

Sei geloso del tuo violino?

“Sono molto affezionato al mio violino e non lo cambierei mai ma ‘non me lo porto a letto’. La musica è anche spirito di condivisione, se qualcuno me lo chiede glielo do senza problemi: gli strumenti – che sono qualcosa di materiale ma anche di spirituale – sono di ‘proprietà’ ma anche di tutti. Il violino diventa molto personale, non come la chitarra o il pianoforte: anche se ne hai tanti, ne scegli uno. Diventa una protesi del tuo corpo”.

Dove crei le canzoni?

“In tanti posti. I primi spunti dei brani li creo in giro, nelle camere di albergo di tutto il mondo. Molto spesso anche tornando dai concerti, come se, a fine esibizione, ti rimanesse qualcosa in testa. ‘Inwards’ (uscito il 7 ottobre, ndr) è nato durante il lockdown. Non potendo viaggiare, i pezzi sono nati quasi tutti in casa. È un album diverso dal primo (‘Awakening’, pubblicato nel 2019, ndr). I nuovi brani sono più interiori, più sofferti. Sono più profondi, più scuri, meno luminosi ma non per questo particolarmente cupi. Dentro di noi vivono tante sensazioni come la pace, il tormento, la gioia. La gioia non è mai piatta. Per me è un disco molto ricco perché ricco e variegato è il mondo interiore”.

“Inwards” è sia il titolo dell’intero cd che della prima canzone.

“Per me è una parola che rappresenta il viaggio interiore. ‘Inwards’ vuol dire ‘verso dentro’. Di solito il primo pezzo apre la strada di tutto il cd. Ho scelto questo pezzo perché, a livello di struttura, ha una prima parte dolce e riflessiva, poi a un certo punto diventa forte e ossessiva. È come guardarsi dentro, come quando apri una porta che ti conduce dentro”.

Perché i titoli delle canzoni sono tutti in inglese?

“È stata una scelta musicale. Ovviamente la lingua italiana, la mia lingua, è meravigliosa ma l’inglese mi ha dato quel senso di distanza dalla realtà. Le parole in inglese hanno un suono più astratto e per me si sposano bene con il genere di musica che faccio, quella strumentale che non descrive la realtà ma dà suggestioni”.

Quanto tempo ci hai messo per fare ‘Inwards’?

“A scrivere i brani a casa direi pochi mesi, poi quando si va in studio per registrare il processo può essere infinito. Quando sei lì non sei mai contento, provi nuove soluzioni, torni indietro. Questa fase è durata due anni, un po’ per i tempi dilatati, un po’ perché dentro ogni artista c’è sempre un’eterna insoddisfazione. Gli arrangiamenti sono come un vestito”.

Cosa è per te ‘Inwards’?

“Visto che viviamo un momento in cui siamo più attenti a quello che succede fuori, è un invito a prendersi un momento per seguire quello che abbiamo dentro”.

Tra 20 anni come ti vedi?

“Spero di avere ancora il violino in mano e portare in giro la mia musica con il mio gruppo. Spero di continuare a basare la mia vita professionale facendo concerti che per me sono un momento insostituibile, contatto con il pubblico. I concerti creano legami”.

Qual è la prima canzone che hai composto?

“L’incontro con il violino è avvenuto quando avevo 12 anni: ho iniziato con la chitarra all’età di 7 o 8 anni perché ero innamorato dei cantautori. Fabrizio De André è stato primo amore, poi è arrivato Franco Battiato. Fino a 12 anni quindi ho fatto il cantautore: chitarra e voce. A casa di mio cugino ho registrato il primo LP intitolato ‘Frammenti di storia’, che conteneva 5 o 6 pezzi dedicati a Re Sole, a Giulio Cesare, alla Rivoluzione francese. Poi ho composto anche qualche canzone d’amore. A 12 anni ho provato il violino, mi sono iscritto al Conservatorio e ho ‘lasciato’ la chitarra. Al Conservatorio devi avere un approccio diverso”.

Qual è la tua canzone preferita?

“Da quando ho deciso di fare un omaggio a Franco Battiato è ‘La cura’. Mi tocca nel profondo, anche per la sua fresca scomparsa. Quando la suono mi sento smosso”.

Il violino è lo strumento che si avvicina di più alla voce della donna?

“Sì, il violino è la voce più femminile perché ha un’estensione molto acuta. Di contro invece il violoncello è più maschile. La forza degli strumenti ad arco è quella di essere più vicina alla voce umana”.

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