Home Notizie del Giorno Visto per voi a teatro: “Il berretto a sonagli” diretto da Gabriele Lavia

Visto per voi a teatro: “Il berretto a sonagli” diretto da Gabriele Lavia

da Alessandro Carli

Pubblicato durante la Prima Guerra Mondiale (1916), riproposto in concomitanza con un altro conflitto bellico (Ucraina-Russia, 2022), “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello, passato sulle assi del Teatro della Regina di Cattolica il 12 aprile nell’interpretazione e nella regia di Gabriele Lavia, conferma ancora oggi tutta la sua forza (foto: Tommaso Lepera).

Non solo per la storia raccontata – quella di Beatrice Fiorica (un’ottima Federica Di Martino che ricorda a tratti Monica Vitti e a tratti Rossella Falk) che vuole denunciare al delegato Spanò (Mario Pietramala, molto convincente nella parte per capacità vocali e fisiche) il presunto tradimento di suo marito con la giovane moglie del suo maturo scrivano Ciampa, che sa ma tace, purché gli venga salvato l’onore – ma per quello che si cela tra le righe. Lavia difatti, davanti all’opera che Leonardo Sciascia definì “la più perfetta commedia” del Nobel di Girgenti di Luigi Pirandello, sceglie la strada della “destagionalizzazione”, facendo vibrare anche altre corde oltre alle tre “celebri “di Ciampa (elemento totemistico della commedia di costume che, in fieri, diventa tragedia “della gelosia”): quelle delle allusioni e del pissi pissi che portano il testo a svilupparsi lentamente (la pièce dura due ore e dieci minuti compreso l’intervallo) grazie a una interpretazione di Ciampa piuttosto caratterizzata e piacevolmente manieristica, quasi a voler porre gli accenti sulla stanchezza e sulla paura del protagonista ma anche sul tema della dualità di Pirandello. Doppi sono i personaggi – gli attori in carne ed ossa e i “pupi”, i manichini in cartapesta che assomigliano ai protagonisti posizionati ai lati del boccascena e poco dietro il fondale – come doppio è il linguaggio scelto, un sapiente connubio di dialetto siciliano (quello utilizzato dall’autore nella prima versione del testo per l’attore Angelo Musco) e di italiano.

Il tema della maschera che si è costretti a indossare nella società per farsi accettare, o per avere un ruolo, è il fil rouge che attraversa la commedia. Rappresentazione del paradosso dell’esistenza, la mise en scene solca come un aratro le rughe dell’ipocrisia familiare delle apparenze: il protagonista, un “Ciampa – Lavia” conficcato come un cardo nel verbo pirandelliano, è costretto a recitare il ruolo di uomo geloso per non mostrare alla società la consapevolezza di essere cornuto.

Ma è soprattutto nel monologo che lo scrivano recita (“Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Sopra tutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. Altrimenti ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. Non si può. Io mi mangerei – per modo d’esempio – il signor Fifì. Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con era sorridente, la mano protesa: ‘Oh quanto m’è grato vedervi, caro il mio signor Fifì!’. Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo”) che arriva, micidiale, la stilettata. La risata diventa pensiero e riflessione, sinapsi che Gabriele Lavia, impegnato anche nella regia, dimostra di conoscere in profondità.  

Non è tanto la qualità delle relazioni familiari quella che vuole indagare Pirandello (che lascia allo spettatore una propria, solipsistica e quindi possibile verità) bensì il “peso” di ciascuna persona (in latino “personaggio”) all’interno di uno “spazio della tortura” che non ha – mai – vie d’uscita. Ciampa digerisce senza far apparente rumore la “parte” purché non venga toccato il suo “pupo”, la sua rispettabilità, e la sua “faccia”. Quella che gli altri vedono, quella che – sic et sempliciter – vogliono vedere. Perché la verità, nella vita e a teatro, non può esser detta. Non tutta, almeno. Non sul palcoscenico. Non davanti agli occhi delle persone.

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