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Il teatro di Stefano Palmucci: così è (se vi pare)

da Alessandro Carli

I maestri del genere, soprattutto in Italia (ma non solo), rispondono ai nomi e cognomi di Luigi Pirandello (Premio Nobel per la Letteratura a metà degli Anni Trenta), Eduardo De Filippo (ma anche Scarpetta) e, andando indietro nel tempo, a Carlo Goldoni e, superando l’anno “zero”, a Plauto.

Nella Repubblica di San Marino non si può non avvicinare il suo nome al teatro, alla scena, ai dialoghi e alle battute: Stefano Palmucci difatti ha una produzione (e numerosi riconoscimenti) davvero importante: le sue opere sono andate in scena, oltre che sul Monte Titano, anche in Italia e negli Stati Uniti d‘America.

Come mai una scrittura per la scena? Spesso ci si avvicina alla scrittura attraverso altre forme: poesia, romanzi, eccetera…

“Io nasco come attore, già alle scuole medie facevo le imitazioni dei professori. Mi sono messo a scrivere quando il Piccolo Teatro Arnaldo Martelli, la Filodrammatica con la quale recitavo già da tempo, si trovò negli anni ’90, in occasione della tradizionale commedia di Sant’Agata, a dover riproporre vecchi copioni ormai datati oppure di seconda o terza scelta per la carenza cronica di nuovi testi. Mi è venuto facile: ho riversato su carta quello che avevo immagazzinato in anni di pratica e fatica sulle tavole del palcoscenico. Poi mi sono messo a studiare i grandi del passato e del presente e, nel mio piccolo, a proporre i miei lavori”.

Quali sono le difficoltà e i punti di forza di un testo che nasce per il palco?

“Sul suo ‘Decamerino’ Gigi Proietti descrive la iattura dei copioni per un attore come lui, tutti gliene proponevano a iosa, da ogni parte, in ogni occasione, con qualunque mezzo e per ogni tramite. Un tempo si diceva: tutti hanno un copione nel cassetto; oggi, con internet, tutti hanno buttato un copione nel mare magnum del Web, tantoché per le compagnie teatrali si è ribaltato il problema che avevano venti anni fa. Allora vi era una carenza strutturale di nuovi copioni, oggi ve n’è fin troppi ed è difficile districarsi in questo mare di roba, robetta e robaccia. Quello che sfugge ai tanti neofiti è che un copione deve avere una ‘struttura’, per reggersi. Bisogna conoscere e padroneggiare le varie fasi di questa struttura, per scrivere un buon testo. La rete è piena di copioni anche con buone idee, buoni spunti, ma poi magari mancano di congruenza, di sequenzialità, di tensione, di climax. Come diceva un vecchio adagio, sembra facile…”.

Da dove nascono le sue produzioni? Parte da uno spunto o attinge a qualcosa che ha visto e che ha successivamente “fatto suo”?

“Non c’è una regola precisa. Stephen King dice che scrivere un testo è come cercare uno scheletro di dinosauro in un campo pieno di sassi. Ogni sasso quindi potrebbe essere lo ‘spuntone’ agognato. Quindi all’inizio ti concentri su quei sassi che sembrano più promettenti, cominci a scavare e spesso dopo un po’ ti accorgi che è solo un sasso. In altre occasioni il sasso è molto grande e devi scavare di più. Alla fine trovi l’osso dello scheletro, lo estrai e poi cominci a lavorare di pennello, per togliere tutte le tracce di terra. Sono molto d’accordo su questa metafora”.  

Qual è l’opera, tra quelle che ha scritto, a cui è più legato? E tra quelle degli altri drammaturghi? 

“Le mie commedie, per me, sono come figli, non c’è quello prediletto. Forse la prima, ‘Il cuore sullo stradone’, che chi mi segue da sempre sostiene sia quella più ‘sentita’ e  – paradossalmente – non è stata più riproposta; posso citare ‘Una figlia da maritare’, con 280 rappresentazioni da parte di 33 diverse Compagnie, o l’ultima ‘L’ambasciatore in ambasce’, che non è ancora stata rappresentata. Mi dà molta soddisfazione, per esempio, quando alcuni miei testi sembrano caduti in oblio poi tornano prepotentemente in auge. Dei ‘colleghi’ mi piace molto la commediografia inglese contemporanea (Alan Ayckbourn, Derek Benfield, Ray Cooney) e qualcosa della francese (Yasmina Reza, Francis Veber). Di italiani apprezzo molto i commediografi della prima metà del novecento (De Benedetti, Manzari, Lopez…)”.

Nella sua produzione si incontrano testi in italiano e in dialetto: in quale delle due “forme” si muove più a suo agio?

“Io nasco col teatro dialettale, sono amante del dialetto quindi mi viene naturale esprimermi in questo ambito. Il testo in italiano nasce dalle mie letture, è più un esercizio scolastico. Mi piace anche provare di inserire schemi e modelli di una ‘forma’ nell’altra, mescolare i meccanismi per provare ad arricchire entrambi. Anche se spesso mi accorgo che non funzionano”.

Oggi la drammaturgia sta vivendo un nuovo Rinascimento: in Italia lavorano bene Ascanio Celestini, Davide Enia, Emma Dante, Fausto Paravidino e Giuliana Musso, giusto per citare qualche nome. A San Marino invece?

“È un discorso complesso. Oggi il teatro è ad un bivio: chi pensa di proporre cose che la cinematografia e la televisione possono fare prima e meglio farà presto la stessa fine delle carrozze quando sono state inventate le automobili. Alle automobili, invece, sopravvive la bicicletta, cioè un mezzo che – ancorché meno veloce e comodo – ti può comunque dare sensazioni diverse e uniche. Un certo teatro intellettualoide di nicchia, fatto solo per gente che va a teatro per poter raccontare il giorno dopo di essere stato a teatro, ha i giorni contati. Nei nomi che ha citato, ci sono rappresentati di entrambe le categorie. In una delle sue ultime interviste, Luigi Lunari (col quale intrattenevo una simpatica corrispondenza) disse: ‘Non mi faccia parlare di Emma Dante, non voglio querele’. Parlare di ‘rinascimento’ mi pare eccessivo. Il teatro di narrazione funziona (Celestini, Massini, ma era molto bravo anche Mattia Torre, purtroppo precocemente scomparso), anche perché – oggettivamente – costa poco. Funziona il cabaret. Non c’è niente da fare, il teatro comico ha maggiori chances di sopravvivenza, perché l’elemento di scrimine del teatro rispetto ad altre forme espressive, e cioè l’estemporaneità, si esprime meglio nella comicità. Io, nel mio piccolo, mi muovo in questa direzione. Credo sia importante divertire, attirare, fare conoscere l’unicità e la ricchezza dell’espressione teatrale ad un pubblico più vasto possibile. Se poi dietro la risata si cela comunque un pensiero che non muore subito, ma che lo spettatore si porta a casa, tanto meglio”.

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